Civico 77 – Ester Manzini

SINTESI DEL LIBRO:
Quando riemerse dalla fermata della metropolitana,
Andrea ringhiò sommessamente per la secchiata
d’acqua che gli piovve addosso. Il cielo di quel
mercoledì sera di fine agosto, tinto di arancione dalle
luci di Milano e rischiarato dai bagliori intermittenti dei lampi,
rispecchiava alla perfezione il suo umore funereo.
Ci mancava proprio questo, pensò Andrea sarcastico.
Un respiro profondo, un paio di imprecazioni masticate tra i denti,
e Andrea si lanciò in strada, con la giacca sollevata sopra la testa in
un patetico tentativo di ripararsi dall’acquazzone.
Sì, perché non bastava essere stato scaricato da Francesco
dopo sei anni assieme, privandolo in un colpo solo dell’uomo che
aveva amato e della casa che condividevano; non bastava il turno
massacrante in ospedale, che gli aveva regalato un’emicrania
fenomenale giusto dietro gli occhi; e neppure bastava quel tempo
infame. Qualcuno gli aveva anche fregato l’ombrello.
Maledicendo la cattiva sorte degli ultimi tempi, Andrea si addossò
al palazzo più vicino e si scostò una ciocca dagli occhi,
rabbrividendo nell’aria densa di smog di Milano. L’isolato era
squallido e un po’ deprimente, con i vecchi palazzi addossati uno di
fianco all’altro, le facciate scrostate e quelle aiuole morenti in mezzo
alla strada come unica, timida nota di verde, ma nulla a cui Andrea
non avesse già fatto l’abitudine: era stato assegnato al piccolo
ospedale del quartiere bene lì accanto, ma aveva passato anni a
bazzicare quelle strade ingombre di spazzatura lasciata fuori dai
bidoni e di miseria assortita, che si presentava sotto forma di facce
smarrite nella povertà e nella criminalità male organizzata.
Ci era abituato, e sotto sotto ci si stava affezionando.
Tirò su col naso e si infilò la mano nei jeans che l’acqua gli aveva
incollato alle gambe. Dovette frugare a lungo per recuperare il
cellulare e, quando le dita umide non riuscirono a sbloccare lo
schermo, si innervosì ancora di più. Solo strofinandosi il telefono
sulla felpa – era ancora estate in teoria, ma quella sera di tempesta
era sgradevolmente fredda – riuscì a rianimarlo.
Aveva salvato il numero come casa n.4.
La prima casa che aveva visto era un gioiello di appartamento
nei quartieri bene, costo irrisorio e una vecchina apparentemente
gentile come padrona di casa; si sentiva sola a vivere in quella
grande casa un po’ antiquata e le avrebbe fatto piacere prendere
con sé con un giovanotto con cui dividere le spese. Si era
entusiasmata scoprendo che Andrea era un medico –
specializzando, ma pur sempre un medico – ma era evaporato tutto
di fronte al perentorio divieto di tenere animali in casa. La signora
gentile si era così trasformata nella “vecchia di merda” e l’affare era
sfumato.
La seconda casa costava un patrimonio ed era infestata dagli
scarafaggi, nonostante l’agente immobiliare avesse cercato di
nasconderli calpestandone cinque con un bizzarro balletto.
Il terzo appartamento si trovava sopra una sala prove frequentata
da gruppi rock più o meno atroci, una situazione inaccettabile per chi
come lui lavorava su turni e doveva centellinare il poco sonno a
disposizione. Certo, i suoi orari folli erano tornati utili a evitare
Francesco in quelle settimane imbarazzanti dopo la rottura.
«Non provo più niente,» gli aveva detto una sera, dopo mesi di
silenzi tesi e di nottate sul divano. Ecco fatto, quattro parole e una
vita buttata via. Andrea non aveva neanche insistito: non aveva più
diciott’anni e non credeva nelle fiabe. Francesco non lo amava più e
quella era l’unica verità che contasse; che fosse colpa della
dedizione alla medicina, dei suoi orari, delle loro vite divergenti…
forse lo aveva trascurato, anzi, di sicuro era così, ma ormai quel che
era fatto era fatto e non si tornava indietro.
Francesco era pur sempre una persona perbene e non lo aveva
buttato fuori dall’appartamento che avevano condiviso per tanti anni,
ma di fatto non si erano più parlati se non per le necessità logistiche.
Andrea aveva già impacchettato quasi tutta la sua roba – a parte Re
Enrico III, e già tremava all’idea di infilare quello scorbutico gatto
tigrato nel trasportino – e gli serviva solo un posto dove crollare un
turno dopo l’altro finché non fosse stato in grado di trovare una casa
tutta per sé.
E così eccolo lì, con il numero di cellulare che gli aveva passato
Anita, la proprietaria del West End, l’improbabile pub del quartiere
universitario dove Andrea aveva passato più tempo di quanto gli
facesse piacere ammettere quando studiava e anche negli ultimi
tempi, dopo la rottura con Francesco. Meglio starsene al bancone a
filtrare litri e litri di cocktail dolciastri piuttosto che fissare il vuoto
della casa, con la sola compagnia del gatto che si faceva le unghie
sui suoi stinchi.
«Vedrai che è un tipo a posto, Andrea,» gli aveva detto Anita,
facendosi roteare nel palmo una bottiglia di sciroppo e
aggiungendone in abbondanza al suo bicchiere. «È un mio vecchio
amico – di vista probabilmente lo conosci anche tu. Sta cercando un
coinquilino, il quartiere non è il massimo ma l’affitto è così basso che
sarebbe uno spreco non fare un tentativo.»
Anita conosceva bene Andrea, e aveva letto nei suoi occhi la
nostalgia e la solitudine che aveva cercato di dissimulare
comportandosi da adulto e sminuendo la faccenda. Gli aveva offerto
tre giri e aveva insistito perché chiamasse il tizio dell’appartamento.
E Andrea lo aveva fatto, una breve telefonata con una voce
sonnolenta che aveva grugnito qualcosa sul vedersi quel mercoledì
alle nove.
Così, dopo aver ossessivamente analizzato la situazione, eccolo
lì. Andrea guardò verso l’alto e trovò il numero civico, un 77
illuminato dalle luci di una delle infinite auto di passaggio. Scorse la
fila di numeri sul citofono e premette la cornetta verde sul telefono.
Uno squillo, due, e uno scricchiolio nella linea preannunciò la
risposta.
O qualcosa di simile.
«… zzo di casino, ma dove li ho messi… ah, eccoli. Sì, pronto!»
La voce era quella che aveva già sentito, solo un po’ meno
assonnata.
«Ehi, salve, sono Andrea – Andrea Ferrari, avevamo
appuntamento per vedere la casa.»
«Per vedere la… ah. Giusto! Non che me ne fossi dimenticato,
ovvio. Ehm… il citofono non funziona, sono al sesto piano ma è
meglio non prendere l’ascensore.»
Iniziamo benissimo.
«Okay, nessun problema. Sicuro che non disturbo?»
«Sicurissimo, davvero. Ti apro,» e riattaccò senza aggiungere
altro. Fu di parola: con un clic il cancello si aprì e Andrea si affrettò a
percorrere il vialetto per entrare nell’androne. Scrollò le spalle, si
sciolse la coda e si passò le dita tra i capelli bagnati di pioggia; dopo
averli legati di nuovo, cercò di darsi un tono – si era dimenticato di
radersi, e il suo guardaroba constava solo di jeans sdruciti e felpe un
po’ troppo larghe. Forse avrebbe dovuto optare per qualcosa di più
adulto e serio, se non più professionale. Mentre saliva lungo rampe
di scale infinite, sotto neon sfarfallanti e con le narici piene dell’odore
della candeggina (il posto almeno era pulito), pensò che tutto
sommato l’inquilino non sembrasse il tipo che si formalizzava per
quei dettagli, ma non sapeva da dove gli arrivasse quell’intuizione.
Dalle parti del quinto piano sentì un coro di miagolii, e un sorriso gli
sfiorò le labbra: quel posto non era poi così male.
Arrivò sul pianerottolo e guardò le uniche due porte che vi si
affacciavano; pregò di non doversi rivolgere a quella che lo salutava
con uno zerbino lilla e giallo pulcino decorato di bambole, e si voltò
verso la seconda. Oltre la soglia Andrea percepì un borbottio lieve,
la voce che aveva già sentito al telefono. Prese fiato, si passò la
mano sui capelli bagnati e si schiarì la voce prima di sollevare il
pugno e bussare tre volte.
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