Una lontana follia – Kate Morton

SINTESI DEL LIBRO:
TUTTO iniziò con una lettera smarrita tanto tempo prima, che
attendeva il suo momento da almeno mezzo secolo, confusa fra
tante altre in una borsa da postino, dimenticata nella soffitta di
un’anonima casa di Bermondsey, a Londra. Ogni tanto ripenso a
quella borsa, e alle centinaia di missive d’amore, di bollette da
pagare, di biglietti d’auguri, di letterine di bambini che mischiati
insieme sussurravano i loro messaggi nell’oscurità. E aspettavano
che qualcuno si accorgesse di loro. Sapete come si dice, vero? Una
lettera trova sempre il suo lettore. Prima o poi, piaccia o no, le parole
riescono in qualche modo ad arrivare alla luce, a svelare i loro
segreti.
Scusate, mi sto lasciando andare al romanticismo. È una vecchia
abitudine degli anni in cui passavo le notti leggendo romanzi
dell’Ottocento alla luce di una piccola torcia, mentre i miei genitori
credevano dormissi. Se il postino Arthur Tyrell fosse stato un po’ più
responsabile, se in quella vigilia di Natale del 1941 avesse terminato
il suo giro di consegne senza farsi tentare da tutti quei grog al rum,
se la borsa non fosse stata gettata in soffitta e dimenticata fino alla
morte del suo proprietario, una cinquantina d’anni dopo, e ancora, se
una delle figlie non l’avesse ritrovata e non avesse chiamato il Daily
Mail, forse l’intera vicenda avrebbe preso un’altra piega. Per me, per
mia madre e soprattutto per Juniper Blythe.
Probabilmente avete già sentito parlare di questa storia: all’epoca
era su tutti i giornali e in tutti i notiziari televisivi. Channel 4 aveva
perfino trasmesso uno speciale invitando alcuni dei destinatari a
parlare della loro lettera, di quella voce che dal passato li aveva
raggiunti e sorpresi. C’era la donna con l’innamorato nella RAF, e
l’uomo con gli auguri di compleanno del figlio sfollato, che neanche
una settimana dopo era stato ucciso dalla scheggia di uno shrapnel.
Mi era sembrato un ottimo programma, a tratti perfino commovente,
e intervallato da vecchi filmati degli anni di guerra. Ricordo di aver
pianto un paio di volte, ma questo non significa granché: ho la
lacrima facile.
Mia madre però non aveva partecipato. L’avevano contattata per
chiederle se la sua lettera contenesse qualcosa di particolare, da
condividere con il resto del Paese, ma lei aveva risposto di no, che si
trattava della fattura di un negozio di abbigliamento ormai chiuso da
moltissimi anni. Ma non era vero. Lo so perché quando la lettera
arrivò io c’ero. E dalla sua reazione posso dire che non si trattava
certo di una faccenda poco importante.
Era fine febbraio, di mattina. L’inverno non mollava ancora, le
aiuole erano ghiacciate e io ero andata dalla mamma per aiutarla a
preparare il pollo arrosto della domenica. Ogni tanto lo faccio, anche
se sono vegetariana e so che durante il pranzo arriva sempre il
momento in cui mia madre assume un’aria preoccupata, poi
angosciata e, quando proprio non riesce più a trattenersi, attacca a
snocciolare dati e statistiche sulla mancanza di proteine e l’anemia.
Mentre pelavo le patate, la lettera cadde sul pavimento,
scivolando attraverso la fessura nella porta. In genere la posta non
viene recapitata di domenica, perciò ci saremmo dovuti stupire.
Invece non fu così. Personalmente, ero troppo concentrata su come
comunicare ai miei che io e Jamie ci eravamo lasciati. Ormai erano
già passati due mesi, mi rendevo conto di doverlo dire, ma più i
giorni passavano più mi era difficile trovare le parole. Del resto
avevo i miei motivi per tacere: ai miei genitori lui non era mai
piaciuto, e la mamma, sapendo che ora vivevo sola, si sarebbe
subito angosciata. Ma più di tutto temevo la conversazione che
sarebbe seguita al mio annuncio. L’altalena di emozioni sul viso di
mia madre: prima lo stupore, poi la preoccupazione, infine la
rassegnazione e il rendersi conto che il suo ruolo le imponeva di
offrirmi una qualche consolazione. Ma torniamo alla lettera. E al
fruscio della carta che scivolava leggera attraverso la fessura nella
porta.
«Edie, puoi prenderla tu?»
Era mia madre. (Edie invece sono io. Scusate, avrei dovuto dirlo
prima.) E mi indicò il fondo del corridoio con un cenno della testa e
con la mano non impegnata a farcire il pollo.
Posai la patata che stavo pelando, mi asciugai le mani con uno
strofinaccio e andai a raccogliere la posta. Sullo zerbino c’era
soltanto una lettera, che un timbro indicava come «corrispondenza
smarrita». La portai alla mamma.
Lei nel frattempo aveva terminato di farcire il pollo. Corrugando
lievemente la fronte, più che altro per abitudine, prese la busta che
le stavo porgendo e cercò gli occhiali nel cesto della frutta. L’aprì e
scorse la comunicazione dell’ufficio postale, quindi passò a una
seconda busta contenuta nella prima.
Intanto io ero già tornata alle patate da pelare, un compito senza
dubbio più interessante che guardare mia madre aprire la posta.
Ecco perché, mi spiace dirlo, non potei vedere la sua espressione
mentre toccava la piccola busta, osservava il vecchio francobollo e
la carta sottile degli anni della guerra, la girava e leggeva il nome del
mittente. Ma ho immaginato molte volte il suo viso impallidire di
colpo, le dita che cominciavano a tremare impedendole quasi di
aprire quella busta.
Invece, non ho bisogno di immaginare i suoni di quel momento. Il
gemito con cui mia madre reagì a quella lettera, seguito da una serie
di strazianti singhiozzi che mi scossero al punto da farmi tagliare un
dito con il coltello.
«Mamma?» Mi avvicinai e le cinsi le spalle, attenta a non
macchiarle di sangue il vestito. Ma lei non disse nulla. Non riusciva,
mi spiegò poi, non in quel momento. Rimase immobile, rigida, gli
occhi pieni di lacrime, stringendosi al petto quella strana lettera dalla
carta così sottile che dentro la busta si intravedeva il foglio ripiegato.
Poi salì in camera sua dando vaghe istruzioni per il pollo, il forno e le
patate.
Senza di lei, la cucina piombò in un doloroso silenzio, e io
cominciai a muovermi pianissimo, senza far rumore, per non turbare
quella quiete. Mia madre non è tipo da piangere, eppure quel
momento – lei chiusa in camera, sconvolta da quanto era successo
– sembrò stranamente familiare, come se lo avessimo già vissuto.
Dopo un quarto d’ora, che occupai pelando patate, cercai di
immaginare da chi arrivasse la lettera e pensai a come comportarmi.
Infine, decisi di salire per chiederle se voleva una tazza di tè. La
trovai più tranquilla e scendemmo insieme in cucina, dove lei, seduta
al tavolo di fòrmica, iniziò a parlarmi della lettera mentre io fingevo di
non vedere i suoi occhi lucidi.
«Viene da una persona che conoscevo molto tempo fa. Ero poco
più di una bambina, dodici o tredici anni.»
Mi tornò in mente un’immagine, il vago ricordo di una fotografia sul
comodino di mia nonna, quando ormai era vecchia e in punto di
morte. Tre bambini, dei quali mia madre era la più piccola, una
bimba con i capelli corti e scuri, appollaiata su qualcosa che si
confondeva con lo sfondo. Strano: mi ero seduta lì, accanto alla
nonna, centinaia di volte, eppure adesso non riuscivo a mettere a
fuoco i lineamenti di quella bambina. Forse i piccoli non sono mai
veramente interessati a com’erano i genitori prima della loro nascita.
A parte quando succede qualcosa di particolare che illumini il
passato. Sorseggiai il tè, aspettando che mia madre continuasse.
«Non so se ti ho mai parlato di quei tempi. Della guerra. La
Seconda Guerra Mondiale. Fu un periodo terribile, una confusione
continua, molte cose precipitarono. Sembrava…» Sospirò.
«Sembrava che il mondo non sarebbe mai più tornato come prima.
Come se fosse uscito dal suo asse e niente l’avrebbe mai più
rimesso a posto.» Strinse la tazza fumante tra le mani e abbassò lo
sguardo sul tè bollente.
«La mia famiglia – mamma, papà, Ed, Rita e io – viveva in un
appartamento di Barlow Street, dalle parti di Elephant and Castle. Il
giorno dopo l’inizio della guerra, noi bambini andammo regolarmente
a scuola, ma poi fummo riuniti in gruppi, portati alla stazione e messi
sul primo treno. Non lo dimenticherò mai: ci avevano dato un
cartellino con il nome, la maschera antigas e uno zaino. E mi ricordo
anche di certe madri che ci avevano ripensato: correvano per la
strada, verso la stazione, gridando alle guardie di lasciare i loro
bambini. Ma poi raccomandavano ai figli più grandi di badare ai
piccoli, di non perderli mai di vista.»
«Chissà com’eri terrorizzata», dissi in un sussurro. Nella nostra
famiglia non siamo molto per il contatto fisico, altrimenti le avrei
preso la mano.
«All’inizio sì.» La mamma si tolse gli occhiali e si sfregò gli occhi.
Senza le lenti, il suo viso aveva un’aria vulnerabile, spaventata,
simile a quella degli animali notturni confusi dalla luce. Mi sentii più
sollevata quando li infilò di nuovo e riprese a raccontare. «Non mi
ero mai allontanata da casa, non avevo mai dormito lontano da mia
madre. Per fortuna mio fratello e mia sorella erano con me. E
quando durante il viaggio una delle insegnanti distribuì tavolette di
cioccolata, a tutti tornò il buonumore e d’un tratto ci sembrò di
essere partiti per una strana avventura. Te lo immagini? Era appena
scoppiata la guerra e noi cantavamo e mangiavamo pere sciroppate
giocando a indovinare oggetti immaginari. I bambini sanno essere
molti forti, in certi casi addirittura insensibili.
«Infine arrivammo in una cittadina chiamata Cranbrook, ma subito
ci divisero in gruppi e ci smistarono su diversi pullman. Il mio, su cui
c’erano anche Ed e Rita, ci portò fino al paese di Milderhurst, dove ci
misero in fila e ci condussero in una grande sala. Un gruppo di
donne del posto ci stava aspettando. Ci accolsero con un sorriso
inespressivo e un elenco in mano. Di nuovo ci fecero allineare, e
invitarono i presenti a fare la loro scelta.
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