Servono 35 anni per riconoscere l’ uomo sbagliato – Sara Radaelli

SINTESI DEL LIBRO:
Osservo la punta delle mie scarpe, sono delle
decolleté in vernice blu con i bordi gialli. Penso che
le dovrei lucidare o quanto meno pulire con un
fazzolettino di carta o una salviettina igienica, perché
sono tutte impolverate, ma in questo momento non
è il caso. Il commissario penserebbe che sono un po’
stramba e ora è fondamentale che io lo convinca
dell’esatto contrario. Il dramma è iniziato in un’afosa
giornata di fine agosto, di quelle che ti fanno sognare
solo di tornare a casa e fare una doccia gelata e
buttare tutti gli abiti in lavatrice. E ha preso forma in
una palazzina elegante di un ricco quartiere
milanese.
Non avevo mai visto un commissariato di polizia,
ero stata qualche volta in una caserma dei carabinieri
per fare denuncia di documenti smarriti, ma in un
commissariato mai, era la prima volta. Fra l’altro il
luogo comune per cui i carabinieri siano tutti
simpatici, buoni e di sinistra e i poliziotti cattivi e di
destra me ne aveva ben fatto stare alla larga. È un
ufficio molto spoglio e con arredi vecchi. Guardo il
commissario e ripeto lentamente scandendo bene le
informazioni: «Nel palazzo in cui mi avete trovata
abita un amico, o meglio un conoscente. Volevo
lasciare davanti alla porta del suo appartamento un
libro, che mi aveva convinta a leggere un paio di anni
fa e di cui ora mi vorrei solo liberare».
E glielo mostro. Si tratta di un libricino piccolo e di
poche pagine, chiaramente un saggio. Sulla copertina
grigia di cartone il titolo “Ebrei e giudaismo a Bivona
(1428-1547)”. Continuo a raccontare: «Ero quasi
arrivata davanti alla sua porta, ma ho sentito un
rumore e ho temuto che fosse lui che rientrava in
casa. Presa dal panico e dal timore di trovarmelo
davanti, mi sono chiusa nello stanzino delle scope,
ma la serratura si è bloccata e sono rimasta lì chiusa
fino a quando una condomina ha sentito che
chiamavo aiuto e invece di aprire e liberarmi ha
chiamato voi direttamente». Il comandante mi
guarda, vedo che osserva il mio cappottino giallo
anni settanta con dei grossi bottoni neri e che gli
scappa da ridere: «Quindi Signorina Sefora
Colombo, Sefora giusto?». «Sì, è un nome biblico,
tanto per stare in tema religioso, Sefora era la moglie
di Mosè. Quando era ragazza, mia madre era andata
con sua sorella gemella al cinema a vedere I dieci
comandamenti . Il film era piaciuto loro così tanto che
erano rimaste in sala a rivedere lo spettacolo
successivo e a casa le avevano date per disperse. Da lì
l’idea di chiamarmi Sefora». «Capisco - annuisce il
comandante - l’ho visto anch’io il film. La scena che
mi è rimasta più impressa è quando Mosè col
bastone apre il mar Rosso. Signorina, non
divaghiamo però, se la persona a cui doveva
recapitare il libro è un amico o conoscente che tra
l’altro glielo aveva anche consigliato, perché non lo
voleva incontrare per darglielo di persona? E perché
mi dice che siamo in tema religioso?». Faccio
volutamente gli occhioni tristi da cerbiatto,
sentendomi ridicola, e gli dico «Guardi io e questo
tizio siamo usciti insieme per alcuni mesi un paio di
anni fa, lui era, anzi credo sia ancora, ma solo forse
perché le persone sono volubili, ebreo praticante. Ha
cercato di plagiarmi facendomi leggere un libro che
parlava degli insediamenti ebraici nella Sicilia del
1400, o meglio degli insediamenti ebraici proprio nel
paese di origine di mia madre che avevamo scoperto
essere stato una importante colonia ebraica fino alla
diaspora imposta dai sovrani spagnoli. Secondo lui
avrei potuto scoprire le mie probabili origini
ebraiche che avrebbero reso possibile una mia
conversione all’ebraismo e di conseguenza una
possibile nostra vita insieme. Lei conosce le regole
degli ebrei praticanti? È fondamentale che la madre
sia ebrea per perpetrare la stirpe ebraica. È la donna
a trasmette la religione ai figli, in quanto questa viene
passata loro tramite l’utero materno. Per un ebreo
osservante sarebbe problematico sposare una non
ebrea: i figli non verrebbero riconosciuti dalla
comunità, non sarebbero ammessi nelle scuole
ebraiche, dovrebbero affrontare il complicato
percorso della conversione che fra l’altro non è ben
visto, perché gli ebrei non fanno proselitismo. Era
estate, io mi trovavo nel paese di origine di mia
madre in Sicilia per passare una settimana di vacanza
con lei e lui aveva appunto scoperto, o meglio lo
avevamo scoperto insieme cercando in internet, che
proprio lì c’era stata un’antica colonia ebraica poi
sfollata dai sovrani spagnoli. E mi aveva fatto cercare
il libro che aveva scritto un professore palermitano,
Antonino Marrone, che secondo lui stava per
Marrano. I Marrani erano i convertiti al
Cristianesimo per imposizione dei sovrani spagnoli,
ma che di nascosto continuavano a praticare la
religione ebraica. Il libro me lo aveva portato il
professore appositamente da Palermo,
probabilmente colpito e lusingato da questo mio
interesse. Era pieno di elenchi, dati sui nomi delle
famiglie, le professioni più comuni dell’epoca. Una
noia. Due mesi dopo, questo mio pseudofidanzato
ebreo mi aveva detto che non mi aveva vista
sufficientemente entusiasta nei confronti della sua
religione e che avevo frainteso io tutta la situazione.
Secondo lui non c’era stata nessuna relazione,
avevamo fatto solo un paio di cenette e non era mai
stata una cosa seria, quindi mi aveva scaricata. Per
tornare alla mia incursione in casa sua, volevo solo
ridargli il libro e liberarmene. Forse anche mandarlo
affanculo. Mi dispiaceva buttarlo via dato che un
professore lo aveva scritto con impegno e dedizione
e volevo che lo conservasse lui per ricordarsi di
quanto fosse stato stronzo e ambiguo, arrivando
perfino a farmi leggere quel libro per poi dire che
tutta la nostra storia era stata solo una mia
proiezione mentale. Questo libro è la prova tangibile
della sua calunnia.
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