Rien ne va plus – Antonio Manzini

SINTESI DEL LIBRO:
«Stai dormendo?».
«No».
«E tieni sveglio pure me».
«Mi va veloce il cuore».
«Com’è?».
«Non lo so. All’improvviso comincia a correre».
«Se respiri profondo lo calmi».
«Ci provo, forse ora va meglio».
«Mi dici perché sei nel mio letto?».
«Nel mio fa freddo».
«C’è la stessa temperatura».
«Qui fa più caldo».
«Sembra, ma non è così. Sono un uomo che fra un po’ fa 50 anni, e non mi
va di dormire con un adolescente che si agita e tira calci».
«Ti capisco. Perché sei così triste? Ho letto che hai preso i cattivi».
«Ho preso un cattivo, gli altri ancora no».
«Cioè?».
«È una storia lunga».
«Tempo ne abbiamo, quello che ci manca è il sonno».
«A te manca il sonno, a me no. Vai a dormire con tua madre, no?».
«Con mamma non mi piace dormire. Va bene, vado nel mio letto, posso
prendere Lupa?».
«No, lei resta qui. A proposito di Lupa, me la devi tenere. Domattina
presto parto».
«Non c’è problema, sganci i soliti cinque euro al giorno...».
«Cinque euro? Io ospito te e tua madre gratis e tu hai la faccia di
chiedermi cinque euro?».
«Tre?».
«Due e chiudiamo».
«D’accordo. Posso accendere la luce?».
«Proprio no!».
«M’è venuta fame!».
«Vedi se c’è qualche biscotto».
«Ti va una pasta riscaldata?».
«No. Voglio cercare di dormire. Buonanotte Gabriele».
«’Notte Rocco».
Mercoledì
Erano le cinque del mattino quando il vicequestore Rocco Schiavone
scalciò via il piumone e poggiò i piedi nudi sul parquet. La casa era tiepida,
segno che almeno quella convivenza forzata a qualcosa serviva, Gabriele
sapeva far ripartire la caldaia. Andò in bagno, una doccia velocissima, gettò
poche cose dentro la sacca. «Tu stai a cuccia, amore» disse a Lupa, che
rimase stesa sul letto. Entrò nel salone. I pannelli che Cecilia e Gabriele
avevano montato erano chiusi. Ma dalle pareti di carta traspariva una bava
di luce azzurrognola. Cecilia stava davanti al monitor del computer. Lento si
avvicinò per sbirciare attraverso una piccola fessura fra i montanti e la vide
seduta a gambe incrociate. Indossava un paio di auricolari ed era
concentrata a guardare un film. Era convinto stesse giocando online. Forse
Sara Tombolotti, la psichiatra alla quale aveva indirizzato Cecilia, stava
ottenendo dei risultati. Silenzioso si allontanò soddisfatto e uscì di casa, lo
aspettavano sei ore di macchina. Aveva mentito a Gabriele, non aveva
chiuso occhio. L’ansia che Baldi, seguendo le indicazioni di Enzo Baiocchi, si
sarebbe messo alla ricerca del cadavere di Luigi sotto le fondamenta del
villino all’Infernetto gli aveva spezzato il fiato e il cuore.
Gabriele era in strada e il freddo era una mano che stringeva al collo.
Come sempre l’abbigliamento del ragazzo non era adeguato alla
temperatura. Un giacchetto sopra una maglietta degli Slayers, i jeans e le
scarpe da basket. Lupa come un aspirapolvere annusava le saracinesche dei
negozi ancora chiusi. Un postino intabarrato che pareva un tuareg passò
veloce sul motorino. Gabriele teneva in mano una merendina all’albicocca e
con un morso ne staccò più della metà. Il suo rendimento scolastico era
sempre in equilibrio precario sul baratro dell’insufficienza. Aveva ottenuto
qualche voto decente ma nelle materie minori. Il vero scoglio era ancora il
latino. Ripassava la lezione, alle 10 ci sarebbe stata un’interrogazione a
tappeto e la prof aveva minacciato la classe. «Chi risulterà assente, a meno
che non sia in ospedale a farsi amputare una gamba, lo riterrò
automaticamente impreparato» aveva detto squadrando gli allievi e, così
parve a Gabriele, soffermandosi su di lui una manciata di secondi in più col
cipiglio severo di chi non ammette repliche. Fino all’una di notte era stato
sui libri e gli sembrava che, almeno sui verbi, stavolta poteva dire la sua.
«Dicesi verbo deponente quel verbo che non ha più la forma attiva e
presenta solo quella passiva anche se mantiene un significato attivo. Un
esempio? Certo prof. Morior, morire, oppure sequior, che vuol dire seguire.
Fammi una frase. Va bene prof. Allora: perpetuo vincit qui utitur clementia!
Bravo Gabriele! Grazie. Un’altra? No prof, so solo questa, ci ho messo una
notte per impararla!». Mangiò il resto della merendina attraversando piazza
Chanoux.
Caterina guardava le montagne incappucciate sulla città che era stata casa
sua per tanti anni, le strade ancora bagnate dall’umidità della notte. Non era
niente di che, ma era stata il suo mondo. Non aveva avuto neanche il tempo
di darle un addio sincero, un taglio netto senza rimpianti, con la
consapevolezza di aver fatto il proprio dovere e non avere nulla da
rimproverarsi. Poi vide il ragazzo con Lupa a neanche cento metri. E un
pugno di ghiaccio le cadde nello stomaco e le fermò il respiro. Gabriele
parlava da solo masticando una merendina, i capelli lunghi e sporchi, vestito
come se fosse primavera. Pareva atermico, non badava al vento leggero e
gelido che anticipava l’inverno. E Lupa ogni tanto alzava la testa per
sniffare l’aria e scoprire gli odori segreti che celava. Forse era il freddo, ma
una lacrima le uscì strisciando sulla guancia. Se l’asciugò, poi salì sulla
Nissan Micra rossa. Mise la prima e il viceispettore Caterina Rispoli lasciò la
città di Aosta.
«Poteva almeno salutarci!» fece Gabriele chinandosi a carezzare Lupa.
«Vero Lupacchiotta?», e con lo sguardo salutò l’utilitaria rossa che svoltò
per perdersi dietro il palazzo ad angolo. Poi la pioggia cominciò a cadere.
Prima arrivarono le piccole gocce, poi le nuvole aprirono la chiusa a cascata
che sarebbe durata giorni.
Temperatura mite, decisamente sopra i 15 gradi. Sole a sprazzi e strade
costipate. Puzzo acre di medicine andate a male e montagne di immondizia
vomitate fuori dai bidoni. Roma dava il meglio di sé. Citofonò. «Sali Rocco»
fece Brizio aprendo il portone.
S’erano appena messi a tavola. Stella scattò in piedi e andò ad
abbracciarlo. La fece girare come una bambina. «Finalmente, quanto tempo.
Come stai?» lo baciò sulle labbra, lo facevano da quando si conoscevano.
«Bene, Stella. Ti vedo in forma!».
«Ecco, diglielo tu, Rocco. Deve mangiare! Fra poco resta solo pelle e ossa»
brontolò Brizio.
Stella si voltò inviperita: «Peso 50 chili, ben due sopra il mio peso forma,
quindi so io quando e cosa mangiare. Dico bene, Rocco?».
«Dici bene!».
«Sei un amico, Schiavo’. Vuoi favorire?».
«No grazie, all’autogrill ho preso una schifezza imbottita di polistirolo...».
Si sedette a tavola. «Magari un bicchiere sì» e si versò del vino.
Brizio partì con la prima forchettata. «Amatriciana, come la faceva
mamma... non sai che te perdi».
«Ho lo stomaco chiuso».
«Mo’ me racconti».
Stella nel piatto aveva un pugno di lenticchie accompagnate da due
carote. «Soffritto, sugo, carboidrati... tutto veleno!» disse ingollando la
prima cucchiaiata. «Allora ti piace?» e indicò il salone. L’avevano appena
arredato. Spiccava un divano in acciaio e pelle e un televisore grande quanto
la parete. «Quanti pollici è?».
«Se non posso anda’ allo stadio, almeno la partita me la godo uguale».
«Per quello che c’è da vede’» fece Rocco sorseggiando il vino rosso.
«Sicuro niente pasta?».
«Sicuro, Brizio».
«Finisco ’sta meraviglia e ci mettiamo in balcone. Sentito che aria? Pare di
stare in primavera, e invece ancora deve veni’ Natale! Roma è una grande
città» e succhiò un paio di spaghetti facendo lo schiocco.
«In termini geografici sicuramente».
«Si tratta della casa?» chiese l’amico. «Non ho ancora novità».
«No, è un’altra questione...».
Stella si pulì la bocca col tovagliolo e guardò Rocco. «Ho saputo che
vendi. Perché?».
«Non mi serve, non la voglio più. Compratela voi!».
Brizio e Stella si guardarono. Fu Stella a rispondere: «No... mi ricorda
Marina, mi ricorda altri tempi che non verranno più, che eravamo tutti felici
e ridevamo sempre».
«Hai capito perché la vendo?».
Stella annuì e mollò un morso alla carota che scrocchiò.
«Pari un coniglio» le disse Brizio.
Stella rise e mostrò due incisivi arancioni.
«Annamose a fuma’ una sigaretta va’...». Uno sguardo a Stella, poi Brizio
si alzò seguito da Rocco.
Dal balcone si vedeva un bel pezzo della città. La Torre delle Milizie,
l’Altare della Patria, e pure un frammento della cupola di Sant’Andrea della
Valle. «Da qui sembra un paradiso, vero?».
«Il problema è quando scendi in strada. Allora, c’è un problema brutto».
«E dimmi». Brizio si accese la sigaretta.
«Baiocchi ha cantato sul fratello. E ha pure indicato alla polizia dove sta il
cadavere. Mo’ come l’ha saputo io non lo so, però ha dato l’esatta
posizione».
«Cazzo...».
«Se lo riportano su, quello ha la pallottola dentro» fece Rocco poggiato
alla balaustra e con il viso rivolto verso i tetti di Roma. «E la pallottola è
della mia pistola, Brizio. Me se bevono!».
Brizio prese un’altra boccata. «Come una lattina de Coca-Cola.
Soluzioni?».
«Non ne ho. Io penso che andranno fino in fondo».
L’amico strizzò gli occhi guardando il panorama. «Abbiamo le mani
legate. Che pensi di fare?».
«Svuoto il conto e te saluto. Io in galera non ci vado. Non per quel figlio
di puttana di Luigi Baiocchi».
«Questo è chiaro. Allora io e Furio mettiamo voce in giro, appizzamo le
orecchie e sentiamo le novità. Era all’Infernetto, no?».
«Sì. Adesso ci abita la famiglia Roncisvalle...».
«Bene. Ci aiutano i tempi burocratici. Non è che uno po’ anda’ a casa
della gente a scava’ sotto le fondamenta così, come ’na scampagnata. È il
caso di avvertire Seba...».
«Non mi risponde».
«Piazzate sotto casa sua. Deve sapere. Proverò a chiamarlo pure io». Alzò
lo sguardo. «Ma guarda te! Il tempo cambia!». S’era alzato un grecale
improvviso e Rocco e Brizio rientrarono in casa con un brivido dietro la
schiena.
Sora Letizia, la vicina di Sebastiano, era affacciata alla finestra. «Vieni su
Rocco...» fece. Rocco entrò nel portone e salì mezza rampa di scale. La
vecchina l’aspettava sulla porta. «Sebastiano non ti risponde, eh?».
«No, sora Leti’, ma a dire il vero manco ce provo più». Entrò. La casetta
profumava di sughi e intingoli. «Sempre a cucinare?».
«Quello Sabatino se ogni giorno non je preparo una cosa diversa dice che
non l’amo più... ma se po’? A 76 anni?».
Svoltarono il corridoio ed entrarono in cucina. Rocco scoperchiò una
pentola: «Polpette!».
«Col pane!» fece orgogliosa la donna.
«Dov’è Sabatino?
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