Ramses. Il figlio del sole – Valery Esperian

SINTESI DEL LIBRO:
Le ruote solcavano la terra sabbiosa, giravano vorticose e i sei
raggi si fondevano fra loro quasi scomparendo alla vista. Gli zoccoli
dei cavalli alzavano una nube di polvere che si disperdeva lenta. I
carri da guerra avanzavano verso la prima linea nemica. Gli arcieri a
bordo armavano l’arco, tendevano la corda e, a poche decine di
metri dai libici, scoccavano, mentre l’auriga tirando le briglie faceva
compiere ai cavalli una curva stretta e repentina, disorientando la
milizia nemica, ormai sfiancata.
I carri egizi si muovevano compiendo grandi ovali stretti, ed era un
continuo turbinio, una marea che avanzava, lambiva le fila dei libici
quasi sfiorandole, si ritraeva, poi avanzava di nuovo.
Una tecnica ormai collaudata da tempo, che aveva portato
all’Egitto numerose vittorie.
Ramses osservava entusiasta lo spettacolo che solo un
combattimento come questo poteva offrire. Era la sua prima volta, il
battesimo del fuoco che tanto aveva agognato, e ora era lì, ad
assaporare ogni cosa: le urla degli aurighi, il nitrire dei cavalli, il sibilo
delle ruote che parevano galleggiare sulla superficie della sabbia, il
silenzio concentrato degli arcieri e le grida dei libici. Quella danza di
morte era condotta da suo padre, il faraone Seti I, che coordinava le
avanzate e incitava gli uomini. Ecco, lui era il suo modello di
riferimento: un uomo valoroso, audace e intelligente scelto dalle
divinità per regnare sulla vasta terra d’Egitto, l’unico grande impero
esistente. I confini dell’Egitto erano i confini del mondo, nient’altro
poteva superarlo in estensione.
Fremeva, il giovane Ramses, stringeva l’arco ed era desideroso di
gettarsi anima e corpo tra le nubi di sabbia e sangue, scagliare la
sua prima freccia, mostrare ad Amon di essere il degno erede al
trono e di avere nelle vene lo stesso sangue di Seth, il dio del caos e
della violenza.
Bramava tutto questo, e invece era costretto a rimanere in
disparte, a distanza di sicurezza, come aveva detto suo padre.
– Andiamo in battaglia! – ringhiò, determinato.
Ameni, il suo migliore amico, che fino a quel momento aveva
assistito assieme a lui sul carro alla battaglia, lo squadrò sorpreso.
– Gli ordini del faraone sono di restare fuori dalla gittata delle
frecce nemiche.
– Siamo così lontani da essere fuori portata persino dagli occhi di
un falco! – sbuffò lui.
– Non posso disubbidire – si lamentò Ameni allentando la presa
sulle redini, come se avesse paura che un movimento involontario
delle braccia potesse far partire i cavalli.
Le fila dei libici si erano aperte, sparpagliando i soldati in piccoli
gruppi isolati, prestando così il fianco alle sortite egizie. La battaglia
aveva preso una piega a loro favore, e Ramses comprese che
presto sarebbe terminata.
– Non c’è più pericolo – constatò, – e non posso permettere che il
mio battesimo del fuoco termini con l’arco ancora vergine. Sono
forte, addestrato, so che posso farcela! A dieci anni ho ricevuto il
titolo di “comandante in capo all’esercito”, nessuno prima di me ha
fatto di meglio. – Mise una mano sulla spalla di Ameni. – Se non mi
obbedisci, trasgredisci gli ordini del tuo comandante. Non uno
qualsiasi, ma il futuro faraone, colui che guiderà le Due Terre d’Egitto
alla grandezza. – Addolcì un po’ lo sguardo. – Ma soprattutto andrai
contro il volere del tuo migliore amico.
Le labbra di Ameni si aprirono in un sorriso. La loro amicizia
affondava nell’infanzia, da quando Ramses aveva memoria.
Ricordava Ameni con lui, a condividere i giochi e gli studi. E questo
gli fece comprendere che stava facendo un errore. Un grosso
errore…
– Non posso metterti in pericolo – mormorò. – Tu resterai qui.
Prima che Ameni potesse reagire in qualche modo, si allungò e lo
spinse giù dal carro, facendolo crollare nella polvere. Poi afferrò le
redini e con un colpo secco incitò i cavalli, che balzarono in avanti,
diretti verso il campo di battaglia. Le ali di lino del copricapo che
indossava sventolarono al vento, sferzandogli le spalle e
ricordandogli la ciocca di capelli che aveva su un lato della testa e
che gli era stata tagliata quando era stato nominato “comandante in
capo all’esercito”. Alle sue spalle, Ameni urlava cercando di
convincerlo a fermarsi, ma lui lo ignorò.
Corresse la marcia piegando in direzione del carro del faraone, i
cui intarsi dorati che ornavano la scocca luccicavano al sole.
Sfrecciò a pochi passi da Seti. – Guardami, padre! – urlò eccitato, e
l’espressione di sorpresa che intravide sul suo volto scomparve nella
sabbia sollevata.
La schiera dei libici era frastagliata e molti di essi avevano smesso
di combattere e deciso di ripiegare in una frettolosa ritirata. Soltanto
alcuni gruppi sparsi fronteggiavano ancora gli egizi, un ultimo
disperato sussulto prima dell’inevitabile resa. Ramses scartò a
destra scegliendo come battesimo di battaglia l’ultimo
assembramento di uomini, quelli più lontani dalla linea di attacco
egiziana. Superò i primi carri dei suoi soldati e scelse la sua vittima,
un libico che lo stava misurando probabilmente stupito dalla
veemenza con cui si stava lanciando contro di lui. Ramses attorcigliò
le redini attorno al polso sinistro, impugnò l’arco e si appoggiò con i
fianchi sul telaio arcuato della scocca per tenersi in equilibrio. Con la
mano libera incoccò la freccia e tese con tutta la forza che aveva in
corpo. Divaricò le gambe per accompagnare i movimenti dell’asse
che sosteneva il carro, mirò e scoccò. La freccia sibilò fendendo
l’aria e si piantò nel petto del soldato libico, centrando il cuore. Con
un urlo di gioia, Ramses riprese il controllo del carro facendo
sterzare bruscamente i cavalli, che risposero sbuffando e nitrendo, si
voltò alla ricerca del successivo nemico da abbattere, riarmò l’arco,
inspirò, trattenne il fiato, tese e scoccò un’altra freccia. Un secondo
cuore libico venne trapassato a morte.
Carico di eccitazione e di esultanza per la sua mira infallibile,
Ramses riportò il carro sul fronte di attacco egiziano giusto in tempo
per godersi la ritirata del nemico. Alzò l’arco verso il cielo, urlando
grida di gioia che divennero un tutt’uno con le grida dei suoi
compagni. Si girò e guardò le facce stanche ma gioiose dei soldati
che lo osannavano. Il sangue gli ribolliva nelle vene e gli faceva
tremare i muscoli. Fra tutte le emozioni provate nella sua breve vita,
quella era la più forte: si sentiva non semplicemente vivo, ma una
divinità. Amon lo aveva guidato e lui aveva reso onore a Maat
riportando l’ordine e la giustizia, sconfiggendo un popolo che aveva
osato varcare i confini occidentali del regno.
La schiera esultante di soldati si divise in due per permettere il
passaggio del faraone. Il riflesso del sole sul carro dorato costrinse
Ramses a socchiudere gli occhi, irritati dalla sabbia e dal riverbero
della luce. Seti alzò il braccio e l’auriga Mehi tirò le briglie fermando il
passo dei cavalli.
– Sei fiero di me, padre? – domandò Ramses trattenendo a stento
l’esuberanza. – Ho ucciso due uomini nel giorno del mio battesimo
del fuoco! Amon ha guidato le mie mani e ha sgomberato la mente
da ogni pensiero, rendendomi lucido e letale come il coccodrillo del
Nilo!
Seti rimase impassibile. Nessun sentimento affiorò sul suo viso,
segnato dal tempo e dalle numerose campagne combattute sotto il
sole cocente. Teneva stretta in pugno la leggendaria lancia di
Cheope: Maat, come la chiamava suo padre, perché era l’arma della
giustizia e della verità, dell’ordine che vince sul caos. Aveva la punta
fatta con la pietra caduta dal cielo, donata dagli dei in segno di
alleanza. Dovunque andasse, la portava con sé.
Dopo un tempo che a Ramses sembrò infinito, il padre finalmente
parlò: – Oggi hai fatto qualcosa che mai nessuno, in Egitto, ha fatto
prima – affermò, e Ramses si sentì vibrare per l’orgoglio. Il volto del
padre, però, s’indurì, e una smorfia inasprì i suoi lineamenti. – Hai
infranto la parola del faraone, e trasgredendo al suo ordine ti sei
mostrato irresponsabile agli occhi non solo degli dei ma anche dei
nostri soldati. Li hai messi in un inutile pericolo, quando ormai la
battaglia era vinta, e hai esposto te stesso alla morte, irridendola.
Sei stato arrogante. Amon non ha guidato le tue mani, non ha reso
lucido il tuo pensiero, completamente offuscato dalla bramosia e
dall’avidità di Seth. Morendo avresti bruciato la nostra dinastia e
messo in ginocchio l’intero popolo egiziano. – Seti consegnò a Mehi
la lancia sacra, scese dal carro e raggiunse il corpo del primo libico
abbattuto da Ramses. Facendo leva con il piede piantato sul torace
della vittima, estrasse la freccia e, ancora sanguinante, la consegnò
al figlio.
Ramses, accigliato, la prese.
– Tu pensi che uccidere sia il compito del figlio del faraone –
proseguì Seti, – ma sei un ingenuo. L’obiettivo primario è rispettare
la nostra terra, quella che gli dei ci hanno consegnato, preservarla
dalle mani straniere che tentano di usurparla. Tutti la bramano
perché è ricca e fertile ed è il regno che ogni essere umano vorrebbe
possedere. Non solo i vivi, persino i morti hanno il loro Egitto
nell’aldilà.
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