Povera ragazza ricca – Lesley Lokko

SINTESI DEL LIBRO:
Capitolo 1
Milton Gardens, Hackney, Londra, Inghilterra, 1993.
Chissà poi perché li chiamavano Gardens, si domandò la sedicenne
Caryn Middleton mentre, di cattivo umore, spingeva a mano la
bicicletta nello spiazzo davanti a Baberton House.
Non c'erano fiori. Non c'erano prati. Solo uno spelacchiato
fazzoletto di terra battuta che il comune ripuliva di rado dai giocattoli
abbandonati e da qualche siringa, un ricordo del periodo in cui gli
spacciatori di Gascoyne Road venivano a ciondolare davanti ai
condomini. Ma ormai non ce n'erano più. Se n'erano andati tutti,
adesso. Le venne in mente quella notte in cui la mamma aveva
chiamato a raccolta i residenti di Baberton e Cheney e aveva
organizzato una veglia per tenere lontani gli spacciatori.
Come si era sentita orgogliosa di lei. Sua madre che bussava alla
porta della gente pianificava la protesta, spiegava quello che, secondo
lei, dovevano fare e dire tutti. Le era sembrata così competente.
Responsabile. Avevano fatto un sit-in per tre notti: tutti gli
inquilini, persino quelli che non si rivolgevano la parola, si erano
seduti e, tenendosi per mano, avevano formato un serrato cordone
protettivo intorno all'isolato. Il comune aveva mandato la polizia per
controllare che non scoppiassero disordini, ma era andato tutto liscio.
Nemmeno uno scontro. Gli spacciatori erano sgattaiolati via dopo la
terza notte, decidendo che era troppo «un fottuto sbattimento» restare
lì. La settimana seguente aveva sentito dire a scuola che si erano
spostati in un altro isolato in fondo alla strada. Era rimasta a guardare
mentre tutti venivano dalla sua mamma e la abbracciavano contenti,
ringraziandola per averli costretti a darsi da fare. Aveva creduto che il
cuore le sarebbe scoppiato per l'orgoglio. La sua mamma!
Non era durato, ovviamente. Per alcuni giorni, brevi e frenetici, era
sembrato quasi che Alice ce la facesse a riprendersi.
Correva avanti e indietro per l'appartamento cantando a
squarciagola, pulendo, lucidando, spolverando, un turbine di energia
nervosa e di eccitazione. C'erano cibo in tavola, pentole che bollivano
sui fornelli e, quando Caryn tornava a casa da scuola, il suo fratellino
Brian aveva già fatto il bagno e pranzato. La madre aiutava persino
Caryn a fare i compiti. Era perfetto: la faceva sentire normale, come
tutti gli altri. Anche se non avrebbe mai osato dirlo a voce alta, e men
che meno ad Alice, le pesava essere l'unica a occuparsi della famiglia.
Era bello sapere che non era la sola a doversi assicurare che Brian
avesse mangiato, che ci fosse abbastanza latte in frigo o che non
saltasse il contatore dell'elettricità. Per qualche giorno era stata
un'adolescente normale, con i problemi tipici della sua età.
Poi Alice era crollata di nuovo, naturalmente, ed era finito tutto.
Ben presto aveva ripreso a girare in vestaglia e a trascorrere la maggior
parte del tempo a letto. C'erano giorni in cui usciva dalla sua stanza
solo per mangiare. Era difficile stabilire che cosa ci fosse che non
andava in lei. «Depressione» dicevano tutti con l'aria di chi la sapeva
lunga. Il bagno era pieno di flaconcini arancioni con il coperchio
bianco. Le pastiglie avrebbero dovuto farla sentire meglio. Non era
così, però. Osservandola, Caryn era giunta alla conclusione che il fatto
non era solo che Alice a volte, era triste. Era molto di più. Uno di quei
problemi gravi e irrisolvibili degli adulti. Alice era diversa; era isolata.
Anche se ogni tanto parlava con qualcuna delle altre donne di
Baberton, era come un pesce fuor d'acqua nel condominio. Era stata
un'insegnante di educazione artistica, un tempo, molti anni prima,
quando ancora non si erano trasferiti a Londra. All'epoca vivevano a
Colchester, ma Caryn non rammentava niente di quel periodo.
Non si ricordava nemmeno di suo padre. Era scappato con la figlia
sedicenne di una coppia che gestiva il pub dietro l'angolo.
«Ti immagini... sedici anni! La stessa età che hai tu, tesoro»
ripeteva spesso Alice, finché Caryn non la supplicava di smetterla.
Solo il pensiero la faceva sentire a disagio.
Suo fratello maggiore, Cameron, se n'era andato di casa appena
aveva potuto, e non c'era nessun altro a cui lei potesse chiedere come
fosse la loro vita prima. Il fratello di mezzo, Owen, ufficialmente viveva
con loro, ma era quasi sempre fuori. Caryn ci teneva a loro, ma in un
modo strano, distante. Le sembrava di non conoscerli veramente. Non
pensava a loro come pensava a Brian, il suo fratellino. Amava Brian
più di qualunque altra persona al mondo. Era nato dopo che si erano
trasferiti a Londra. Aveva un altro padre, Mike, un muratore che di
tanto in tanto passava da casa loro. A Caryn piaceva Mike. Era
simpatico, sorrideva sempre e le regalava una banconota da cinque
sterline ogni volta che veniva a trovare Brian. Era scuro di carnagione,
anche in inverno. Le aveva raccontato che suo padre era originario
della Giamaica. Era quello il motivo per cui tutti dicevano che Brian
sembrava italiano, o spagnolo, oppure greco.
Non era pallido come gli inglesi e come il resto della sua famiglia.
A Caryn sembrava bellissimo- pelle dorata, capelli scuri e ricci...
Dicevano tutti che sarebbe diventato un rubacuori, proprio come suo
padre. Ma, sfortunatamente, Mike non poteva fare molto per Alice.
Sosteneva che le servisse l'aiuto di uno specialista Diceva che era
«andata un po' fuori di testa». «Ma andata dove?» avrebbe voluto
chiedergli Caryn. C'erano giorni in cui anche lei avrebbe desiderato
andarci, ma ovviamente non poteva. Chi avrebbe badato a Brian? Una
volta, in una giornata buona per Alice, l'aveva udita dire alla signora
Fields, una loro vicina, che era già tanto se Caryn aveva imparato a
cucinare e a tenere in ordine la casa. «La mia cara, piccola Caryn. Non
so cosa farei senza di lei.» Ascoltare quelle parole avrebbe dovuto
inorgoglirla, e invece no. L'aveva fatta sentire a disagio, come se le
avessero regalato qualcosa che non desiderava.
Spalancò la porta dell'atrio e trascinò dentro la bici. L'ascensore era
rotto. Aprì con un calcio la porta che dava sulle scale e cominciò la
lunga salita fino all'ottavo piano, con la bici che sfregava sui gradini
dietro di lei. Sospirò. C'erano settimane in cui sembrava andare tutto
storto.
Capitolo 2
Avonlea, Chinhoyi, Zimbabwe, 1993.
Il vento era calato sino a divenire una brezza leggera quando Nic
Harte fece uscire lentamente il suo cavallo dalle scuderie e attraversò il
sentiero di terra battuta, dirigendosi verso la strada. Gli alberi di
msasa che fiancheggiavano il vialetto non scintillavano più come a
mezzogiorno. Adesso, nell'ora più fresca del pomeriggio, tutto era
tranquillo e silenzioso in attesa del crepuscolo, quando la temperatura
scendeva insieme a un'oscurità nera come l'inchiostro. Oltre il sentiero
e gli alberi ondeggianti si stendevano grandi campi di mais, che si
interrompevano dove cominciava il pendio delle colline. Non appena si
fu lasciata alle spalle il vialetto ed ebbe perso di vista il corpo
principale della casa, Nic balzò in groppa a Simba con un movimento
agile e gli piantò i calcagni nei fianchi, avvertendo sotto le cosce la
reazione immediata del cavallo, che balzò in avanti e cominciò a
galoppare. Lontano da casa e dall'aria pesante e minacciosa che si era
creata dopo la discussione con la sua matrigna, Nic sentì che la
tensione al petto iniziava finalmente ad allentarsi.
Procedette al galoppo lungo lo stretto sentiero, ancora all'ombra
dei msasa, lasciando nella propria scia una nuvola di polvere sabbiosa.
In fondo al campo di mais svoltò a sinistra, in direzione delle colline,
tagliando attraverso l'erba alta. Gli steli correvano loro incontro
mentre costeggiavano il sentiero serpeggiante a due corsie lungo il
quale camminavano gli abitanti dei paesi vicini. Di tanto in tanto, le
loro teste spuntavano dalle folte setole gialle.
Poi, bruscamente come vi erano entrati, riemersero dall'erba e
cominciarono a inerpicarsi. Simba rallentò e iniziò a procedere con
cautela fra le rocce e i piccoli massi che segnavano il principio delle
colline. Salirono in modo costante per un po', e l'unico rumore al
mondo era il loro respiro: quello di Nic sommesso e superficiale,
quello di Simba profondo e rapido. Il collo dell'animale era screziato
da rivoli di sudore schiumoso nei punti in cui le briglie strofinavano
contro i suoi muscoli gonfi. Dei sei cavalli ospitati nelle scuderie ai
margini della fattoria, dietro gli alloggi della servitù, Simba era il suo
preferito.
A metà della collina, Nic tirò le redini e si voltò indietro per
guardare casa sua, seminascosta dalla distesa di prati e campi.
Alla sinistra dell'abitazione principale e della tenuta c'erano,
sparse, le casupole di fango e le precarie baracche con il tetto a una
falda dei braccianti: puntini minuscoli e insignificanti in un paesaggio
che era stato domato, spianato e disboscato per creare l'enorme
proprietà terriera di quattromila ettari che suo padre aveva avviato,
quasi per hobby, circa trent'anni prima.
Avonlea era la tenuta più grande della zona e prendeva il nome dai
campi verdeggianti che costeggiavano il fiume Avon, il luogo dove,
presumibilmente, suo padre aveva trascorso la maggior parte della sua
infanzia. Nic non era sicura di dove fosse cresciuto. Jim Harte non era
il tipo d'uomo che raccontasse di sé. Sua figlia - come quasi tutti - non
sapeva praticamente nulla di lui, tranne, ovviamente, che era uno degli
uomini più ricchi dello Zimbabwe. La RhoMine, la rete di società in
continuo sviluppo di proprietà di suo padre, era la più grande impresa
privata del paese, con il maggior numero di dipendenti. Potente,
determinato e decisamente senza scrupoli, con un carattere violento e
notoriamente collerico, Jim Harte era un bersaglio facile, il genere di
persona che tutti amavano odiare. Non che lui se ne accorgesse o gli
importasse. Non gliene fregava un accidente di quello che la gente
pensava di lui.
Eppure, come dicevano tutti (alle sue spalle, ovviamente), il
successo aveva avuto il suo prezzo. Persino Jim Harte non era immune
dalla tragedia. I suoi primi due matrimoni si erano conclusi con la
morte del coniuge. Jane, la sua prima moglie, si era suicidata. Si
mormorava che fosse stato lui a indurla a uccidersi, si parlava di
relazioni illecite, di un figlio illegittimo, di un cuore infranto. Non era
mai stato dimostrato niente, né era mai saltato fuori un figlio bastardo.
Patrick e Shaun, i fratellastri più grandi di Nic, erano gli unici
discendenti maschi a portare il suo cognome. Alla fine i pettegolezzi si
erano smorzati. Jane era stata sepolta ai confini della proprietà, nel bel
roseto che i giardinieri curavano ogni giorno. Nic non aveva mai visto
il padre visitare la sua tomba. Poco dopo la morte della prima moglie,
lui aveva sposato Sarah Parker, la migliore amica di Jane dai tempi in
cui erano al college in Inghilterra. Jane e Sarah erano state
inseparabili a scuola e, quando Jane era partita per l'Africa, Sarah era
venuta a trovarla ogni volta che poteva. Era presente al funerale di
Jane - inconsolabile, aveva sentito raccontare Nic -, ma non era più
tornata in Inghilterra. Sei mesi dopo la sepoltura della sua migliore
amica, aveva sposato Jim Harte.
Tre anni dopo, anche lei era morta, in un incidente di caccia.
Oltre ai due figliastri, aveva lasciato una bambina di due anni.
Jim non aveva più menzionato nemmeno il suo nome, e tutte le
tracce di Sarah erano state cancellate dalle sue varie residenze
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