Il Tiranno- Massimo Manfredi

SINTESI DEL LIBRO:

 L’uomo arrivò poco dopo il tramonto quando le ombre cominciavano ad
allungarsi sulla città e sul porto. Avanzava a passo svelto portando a tracolla
una bisaccia, e si volgeva intorno di tanto in tanto con una certa aria
apprensiva. Si fermò nei pressi di un’edicola di Persefone, e il lume che
ardeva davanti all’immagine della dea ne rivelò l’aspetto: i capelli brizzolati
di chi ormai aveva superato la mezza età, il naso dritto e la bocca sottile, gli
zigomi alti e le guance scavate, in parte coperte da una barba scura. Lo
sguardo, inquieto e sfuggente, manteneva tuttavia un’espressione di dignità e
di contegno che contrastavano con l’aspetto dimesso e con il vestiario
consunto, rivelando una condizione elevata anche se decaduta.
Imboccò la strada che conduceva al porto orientale e cominciò a scendere
verso la darsena, dove erano più numerose le bettole e le osterie frequentate
dai marinai, dai commercianti, dagli scaricatori e dai soldati della flotta.
Corinto viveva un momento di prosperità e i suoi due porti brulicavano di
vascelli che importavano ed esportavano merci in tutti i paesi del mare
interno e del Ponto Eusino. Nel quartiere meridionale dove c’erano i
magazzini del frumento era facile udire l’accento siciliano in tutte le sue
variazioni di tono: agrigentina, catanese, geloa, siracusana...
Siracusa... a volte gli sembrava di averla dimenticata, ma bastava un nulla per
richiamare alla memoria i giorni della sua infanzia e della maturità, per
ritrovare le luci e i colori di un mondo ormai trasfigurato dalla nostalgia, ma
soprattutto dall’amarezza di una vita segnata inesorabilmente dalla sconfitta.
Era giunto davanti alla taverna ed entrò dopo essersi guardato intorno
un’ultima volta.
Il locale cominciava ad animarsi con gli avventori che venivano a mangiare
una minestra calda e a bere vino schietto, come fanno i barbari e i poveracci.
Nella bella stagione la gente si sedeva fuori sotto il pergolato a guardare i due
mari, uno scuro già preda della notte, l’altro rosso dell’ultimo bagliore del
crepuscolo, e le navi che si affrettavano per entrare nel porto prima che
facesse buio.
D’inverno, quando il vento di Borea scendeva dai monti a gelare le membra,
si accalcavano all’interno in un’atmosfera densa di fumo e di odori grevi.
L’oste attizzò il fuoco, poi prese una scodella di zuppa e gliel’appoggiò
davanti, sul tavolo. «La cena, maestro.»
«Maestro...» ripeté l’altro sottovoce con un tono appena percettibile di
disappunto.
Il cucchiaio era sul tavolo, legato a uno spago altrimenti la gente se lo portava
via.
Lo prese e cominciò a mangiare, lentamente, assaporando quel cibo semplice
e gustoso che gli scaldava le membra intirizzite.
Stavano arrivando le ragazze per i clienti che, dopo aver mangiato,
cominciavano a bere o già erano brilli perché bevevano da un pezzo con la
scusa che faceva freddo e bisognava scaldarsi.
Cloe non era particolarmente bella, ma aveva occhi neri e cupi e
un’espressione altera così assurda per la sua condizione di giovane prostituta
che gli ricordava quella delle donne siciliane. Forse lo era, chissà.
O forse gli rammentava qualcuno, un amore giovanile nella sua terra di
origine. Per questo la osservava, di tanto in tanto, e le sorrideva, e lei
ricambiava il sorriso senza capirne il significato. Lo guardava con occhi
increduli e un po’ beffardi.
Se la trovò di fianco quasi d’improvviso e dapprima ne rimase sorpreso, poi
fece cenno all’oste di portare un’altra scodella e gliela avvicinò, deponendo al
tempo stesso alcune monete sul tavolo.
«Non puoi anche fottere con quei soldi, maestro» disse lei dopo aver contato
con un’occhiata le monete.
«No, infatti» aveva risposto lui, calmo. «Voglio solo offrirti un piatto di
zuppa. Sei magra e se continui a dimagrire non sarai più buona per i clienti, e
ti metteranno alla macina. Perché mi hai chiamato a quel modo?»
«Maestro?»
L’uomo annuì riprendendo a mangiare la sua zuppa.
La ragazza alzò le spalle. «Ti chiamano tutti così perché insegni, a
pagamento, a leggere e scrivere. Ma pare che nessuno sappia come ti chiami
in realtà. Avrai un nome, no?»
«Come tutti.»
«E non me lo diresti?»
L’uomo scosse il capo affondando ancora il cucchiaio nella zuppa. «Mangia
anche tu» le disse «finché è calda.»
Cloe si portò la scodella alle labbra e sorbì rumorosamente il brodo. Si pulì
con la manica della tunica. «Perché non vuoi dirmelo?»
«Perché non posso» rispose l’uomo.
La ragazza gettò un’occhiata alla bisaccia che aveva appeso allo schienale
della sedia. «Che cosa c’è lì dentro?»
«Nulla che ti riguardi. Mangia, che sono arrivati dei clienti.»
L’oste si avvicinò. «Vai in camera» le disse indicando una porticina in fondo
al locale. «Ci sono due audaci marinai che hanno voglia di divertirsi. Hanno
pagato anticipato. Vedi che restino soddisfatti.»
La ragazza mandò giù ancora una cucchiaiata di zuppa, e prima di andarsene
gli sussurrò all’orecchio: «Attento, la tua borsa attira troppo l’attenzione. C’è
qualcuno che vorrebbe sapere che cosa contiene. Io non ti ho detto niente.» E
aggiunse ad alta voce: «Grazie per la zuppa, maestro. Mi ha scaldato il
cuore.»
Cloe venne affittata a due stranieri già ubriachi. Grandi, grossi e sporchi. E
poco dopo la sentì gridare. Erano di quelli cui piaceva far male. Si alzò e
corse verso la porta in fondo al locale mentre l’oste gli gridava: «Dove vai?
Fermati, accidenti a te, fermati!» Ma ormai aveva spalancato la porta e si era
gettato dentro a quel bugigattolo buio gridando: «Lasciatela stare! Lasciatela,
bastardi!»
Seguì un parapiglia che si trasformò in una vera e propria colluttazione. Lo
aggredirono in due spintonandolo fuori in mezzo al locale, ma lui reagì
brandendo una sedia. Intanto gli altri avventori si accalcavano intorno ai
contendenti incitandoli a gran voce. Un terzo individuo gli si avvicinò
cercando di sfilargli la borsa ma lui lo colpì con la sedia e andò ad
appoggiarsi subito dopo con le spalle al muro.
Ormai era circondato. Spaventato dall’aver osato tanto, grondava sudore e
tremava mentre i suoi avversari si avvicinavano sempre più minacciosi.
Uno di loro gli si avventò contro colpendolo allo stomaco con un pugno e poi
al volto, ma quando anche l’altro fece per gettarglisi addosso apparvero
d’improvviso tre energumeni mai visti prima che li stesero a terra uno dopo
l’altro a buttar sangue dalla bocca e dal naso. Poi, così come erano apparsi, si
allontanarono.
Il “maestro” si assicurò che la bisaccia fosse ancora al suo posto, passò in
mezzo alla gente ammutolita e si diresse a sua volta verso l’uscita.
Lo investì una folata di vento freddo che lo fece rabbrividire. Solo in quel
momento sentì l’effetto dei colpi che aveva ricevuto e al tempo stesso
l’allentarsi della tremenda tensione che lo aveva attanagliato fino a quel
momento. Barcollò, si portò le mani alle tempie come per bloccare il senso di
vertigine che gli toglieva la terra da sotto i piedi, cercò un punto d’appoggio
che non c’era, e cadde riverso in mezzo alla strada.
Riacquistò conoscenza molto dopo, quando cominciò a piovere e l’acqua
gelata prese a scorrergli sul viso e lungo la schiena. Passò ancora del tempo e
sentì che qualcuno lo trascinava dall’altra parte della strada sotto la tettoia
dove erano legati gli asini.
Aprì gli occhi e il chiarore che si diffondeva dalle finestre dell’osteria gli
permise di distinguere la faccia di un vecchio mendicante con la testa calva e
la bocca sdentata.
«Chi sei?» gli chiese.
«Chi sei tu, piuttosto. Non ho mai visto una cosa del genere. Quei tre sono
spuntati dal nulla e hanno fatto un macello... poi sono spariti. Un simile
sconquasso per un pezzente...»
«Non sono un pezzente.»
«Già, sarebbe molto strano in effetti.» Il vecchio lo tirò su contro la parete e
lo coprì con un po’ di paglia.
«Aspetta, grand’uomo» disse. «Forse mi è rimasto del vino. È la mia paga per
fare la guardia a questi asini per tutta la notte. Bevi, manda giù un goccio che
ti scalda.»
Lo guardò mentre ingollava qualche sorso di vino. «Se non sei un pitocco,
che cosa sei allora?»
«Mi guadagno da vivere insegnando a leggere e scrivere ma io...»
«Tu che cosa?»
Storse la bocca in un ghigno che avrebbe potuto essere un sorriso. «Io fui il
signore della più grande e ricca città del mondo...»
«Sì, eh? Come no? E io sono il gran re di Persia.»
«E mio padre è stato il più grande uomo del nostro tempo... Dammi ancora un
po’
di vino.»
«Ma che storie mi vai raccontando?»
Bevve alcuni lunghi sorsi.
«Che cosa c’è in quella bisaccia che tieni sempre così stretta?»
«Niente che valga la pena di rubare. C’è... la sua storia. La storia di un uomo
che divenne signore di quasi tutta la Sicilia e di gran parte dell’Italia,
sconfisse i barbari in innumerevoli battaglie, inventò macchine da guerra
come non si erano mai viste, deportò intere popolazioni, eresse la più grande
fortezza del mondo in soli tre mesi, fondò colonie nel Tirreno e
nell’Adriatico, sposò due donne nello stesso giorno...
unico fra i Greci.»
Il vecchio gli porse ancora la fiasca del vino e si avvicinò sedendosi a sua
volta con la schiena appoggiata al muro. «Per gli dèi! E chi sarebbe questo
fenomeno, questo...»
Un lampo illuminò a giorno la strada luccicante di pioggia e il volto
tumefatto del maestro. Un tuono esplose in mezzo al cielo ma lui non si
scosse. Strinse al petto la sua borsa e disse, scandendo le parole con enfasi:
«Il suo nome era Dionisio, Dionisio di Siracusa. Ma il mondo intero lo
chiamò... il tiranno!»
I
Un cavaliere si avvicinava a folle andatura sollevando un turbine di polvere
bianca dalla strada di Kamàrina diretto all’ingresso orientale della città.
L’ufficiale di picchetto gli intimò di fermarsi. «Non ti avvicinare» gridò.
«Fatti riconoscere!»
Ma l’ordine fu inutile. Il cavallo cedette di schianto a meno di duecento piedi
dalla cinta muraria stramazzando al suolo e il cavaliere rotolò nella polvere.
«Aprite la posterla» ordinò l’ufficiale. «Presto, andate a vedere chi è e
portatelo dentro!»
Quattro sentinelle uscirono di corsa e raggiunsero il cavaliere che giaceva
immobile nella polvere. Il cavallo poco distante ansimava in agonia.
L’uomo gridò di dolore quando cercarono di rivoltarlo, e mostrò un volto
sfigurato dalla fatica: sporco di polvere e di sangue.
«Chi sei?» chiese uno dei soldati.
«Vengo da Selinunte... voglio parlare con il vostro comandante, presto,
presto, vi scongiuro.»
I soldati si guardarono l’un l’altro in faccia, poi fecero una portantina con le
lance e gli scudi, ve l’adagiarono sopra e lo portarono dentro. Uno di loro si
attardò un momento a dare il colpo di grazia al cavallo che si afflosciò con un
ultimo rantolo.»

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