La stella di pietra – Marco Buticchi

SINTESI DEL LIBRO:

Roma, 27 marzo 1985. Facoltà di Lettere. Corso di laurea in Archeologia e
culture del mondo antico
«Diffidate, troiani! Temo i greci, anche quando portano doni.»
Dopo aver citato il passo dell’Eneide, la studentessa rimase in silenzio, in
attesa delle domande del professore.
Il rettore della facoltà, un luminare nello studio dell’antichità classica,
conosceva bene le doti di quell’allieva considerata tra le migliori del corso. La
giovane aveva bruciato di slancio ogni tappa dei suoi studi e ora era giunta alla
discussione della tesi.
Sara Terracini possedeva un’intelligenza fuori dal comune e una bellezza
altrettanto straordinaria: gli occhi erano scuri come la notte, la carnagione colore
dell’ambra, la bocca carnosa e sensuale si apriva spesso in un sorriso luminoso.
L’ovale perfetto del viso era incorniciato da capelli corvini, lisci come la seta; il
corpo, lungo e sinuoso, nulla aveva da invidiare a quelli delle statue antiche
oggetto dei suoi studi.
«... e quindi, signorina Terracini? Perché cita Virgilio?» chiese il professore
cercando di rompere un silenzio che si stava facendo imbarazzante dopo
un’indicazione che a tutti i membri della commissione era sembrata poco
pertinente.
«In quei versi Laocoonte scongiura i suoi concittadini di non introdurre il
cavallo dentro le mura di Troia. Ma la dea Atena, schierata con i greci, ordina a
due serpenti marini, Porcete e Caribea, di emergere dalle acque e di ghermire i
figli del gran sacerdote. Il povero Laocoonte accorre in aiuto dei suoi due
ragazzi, ma anche lui viene stretto nella morsa dei mostri e trascinato negli
abissi...»
«Conosciamo tutti la leggenda di Laocoonte, signorina. Non capisco cosa
c’entri l’Eneide con l’argomento della sua tesi, il cui titolo è ’L’arte dei falsi. I
falsi dell’arte’.» Le parole severe del professore erano accompagnate però da un
sorriso che ne addolciva il tono. Del resto, quella studentessa brillante meritava
di essere ascoltata.
Sara Terracini proseguì come se nulla fosse. «Il più importante gruppo
scultoreo dell’arte classica giunto sino a noi, custodito ai Musei Vaticani, è
appunto Laocoonte e i suoi figli ed è la rappresentazione esatta del passo
dell’Eneide che ho appena citato. L’opera ha un’altezza di quasi due metri e
mezzo ed è un capolavoro di assoluta maestria, anche nei particolari più
insignificanti. È attribuito a tre scultori, Agesandro, Atanodoro e Polidoro, attivi
a Rodi nel I secolo...»
Il professore la interruppe di nuovo. Ma l’aria condiscendente di poco prima
ora era scomparsa, quasi avesse intuito la conclusione del discorso.
«E quindi, signorina Terracini?» ripeté bruscamente.
«Egregio rettore, sono convinta che il gruppo del Laocoonte sia uno dei grandi
falsi della storia dell’arte. Un falso che ha tutte le caratteristiche di un’opera
rinascimentale.»
«Signorina Terracini... riconosco che sia legittimo diritto di chiunque
esprimere le proprie ipotesi, ma in questa sede la pregherei di tenere per sé certe
illazioni. Mi meraviglia molto che un’affermazione così azzardata provenga da
una studentessa con il suo curriculum...»
Sara si rese conto che le cose si stavano mettendo male. Seduto tra i membri
della commissione, il professor Caselli, con cui aveva preparato la tesi, scuoteva
la testa rassegnato: l’aveva avvertita più volte di non tirare fuori quella storia,
specialmente in presenza del rettore.
In quel momento la porta sul lato sinistro dell’aula si aprì. La segretaria della
presidenza avanzava a passo veloce, pallida e corrucciata, le mani strette
nervosamente l’una all’altra. Giunta in prossimità della cattedra, la donna fece
un cenno al rettore che si alzò con brevi parole di scuse e si appartò in un angolo
dell’aula. Rimase là per alcuni minuti e, mentre parlava a bassa voce con la sua
collaboratrice, i presenti lo videro passarsi più volte le mani tra i capelli. Quindi
tornò al tavolo d’esame e, con il volto contratto dall’ansia, annunciò: «Il
professor Ezio Tarantelli, mio carissimo amico e collega, è stato appena ferito
gravemente nel cortile della facoltà di Economia e commercio. Forse si tratta di
un agguato terroristico. Dovete scusarmi, ma sono costretto ad abbandonare la
sessione di laurea. La prego, professor Caselli, di assumerne la presidenza in mia
vece».
Il professor Caselli stava parlando con un compagno di corso di Sara, Carlo
Garavaglia. La loro conversazione era così fitta che il rettore fu costretto a
chiamare un’altra volta il docente e ripetergli l’invito a occupare il suo posto.
Quindi si allontanò dall’aula di gran fretta.
Subito dopo aver conseguito la laurea summa cum laude, Sara si sentì confusa e
svuotata, in preda a una sensazione di inspiegabile disagio. Dapprima attribuì
quello stato d’animo a un prevedibile calo di tensione; così, senza dire una sola
parola, lasciò che Carlo Garavaglia, da sempre innamorato di lei, le cingesse il
capo con la corona di foglie di lauro. Poi, cercando di ignorare quello strano
senso di malessere, sorrise di fronte alle felicitazioni degli amici e si avviò
assieme a loro verso un bar poco lontano dall’università. Riuscì perfino a
scherzare con Carlo sulla quantità esagerata di fotografie che lui le aveva
scattato quella mattina, ma poi, dichiarando il proprio imbarazzo, lo convinse a
consegnarle le «prove» di quanto era avvenuto, nonostante lui insistesse per
tenersi i rullini.
Quando giunse il momento di salutare i compagni, fu vinta da una vertigine di
commozione al pensiero che un capitolo della sua vita si era chiuso per sempre,
ma si riscosse quasi subito e si avviò a piedi lungo il muro di cinta della
cittadella universitaria.
Era trascorsa poco più di mezz’ora dal momento in cui si era alzata dal tavolo
della commissione. Imboccando via Castro Laurenziano, Sara ripensò alle parole
con cui il rettore si era congedato in tutta fretta: un professore era caduto vittima
di un attentato nei pressi della facoltà di Economia e commercio che aveva sede
proprio in quella via. Ora era stata parzialmente transennata e chiusa al traffico
per consentire agli specialisti di effettuare i rilievi.
Improvvisamente fu colta da un inquietante dubbio, frutto di immagini
sfuocate e confuse: come ogni giorno, anche quel mattino, prima della
discussione della sua tesi, aveva percorso quella strada. Ma ora aveva la
sensazione di aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
Con la mente ripercorse i passi di qualche ora prima. Carlo l’aveva seguita,
quasi fosse una sposa che andava all’altare, continuando a scattare decine di foto
con due diversi apparecchi fotografici. E, forse, aveva immortalato qualche
dettaglio importante proprio in quella via. I rullini che Carlo le aveva
consegnato, ora, le pesavano in tasca come marmi.
La scena del crimine le sembrò una sorta di macabro set cinematografico. Gli
inquirenti si muovevano tra i reperti insanguinati senza lasciar trapelare nessuna
emozione. Quello che per lei era uno spettacolo terribile, per loro doveva essere
poco più che ordinaria amministrazione. Eppure, quella totale mancanza di
compassione la turbava profondamente.
Sara si appoggiò alla transenna. La Citroën rossa era una delle poche auto
rimaste all’interno del cortile riservato ai docenti. Gli uomini della polizia
scientifica tenevano gli sportelli aperti e scattavano foto in un baluginare
ininterrotto di flash. Il corpo agonizzante della vittima era stato caricato di corsa
su un’ambulanza nell’inutile tentativo di salvargli la vita. Ma il professor
Tarantelli, questo diceva la gente attorno a lei, era spirato durante il trasporto.
Ormai la notizia era certa: i terroristi gli avevano svuotato un caricatore di
mitraglietta in pieno volto.
Sara non riusciva a staccare gli occhi dall’auto e il senso di disagio che la
opprimeva si fece ancora più acuto. Carlo aveva voluto che fosse proprio la
Citroën del professor Tarantelli a fare da sfondo a parecchie delle foto che aveva
scattato, assicurandole che, nella pellicola in bianco e nero, il rosso della
carrozzeria avrebbe prodotto una bellissima gradazione di grigio. Dietro
quell’auto si ergeva l’architettura d’avanguardia della biblioteca del Lavoro:
quegli scatti sarebbero stati «unici!» aveva detto Carlo con gli occhi pieni
d’amore.
Quando il tocco di una mano sulla spalla la riscosse dai suoi pensieri, Sara
trasalì.
«Una brutta faccenda, dottoressa Terracini... proprio una brutta faccenda», le
disse il professor Caselli. «Capisco che questo non sia il momento più
opportuno, ma le rinnovo i miei complimenti per la discussione della sua tesi.
Sono onorato di aver fatto da relatore a un lavoro così rigoroso. Certo, ho temuto
che il rettore avesse un malore prima che fosse costretto ad abbandonare la
sessione di laurea», le confessò con un sorriso d’intesa. «Ma che succede, Sara?
La vedo molto pallida. Venga, allontaniamoci da qui, non è un bello spettacolo.»
La prese sottobraccio, continuando a guardarla da dietro i suoi occhiali tondi.
L’uomo indossava, come d’abitudine, una giacca di velluto a coste e dei jeans
Levi’s che gli davano un aspetto giovanile. Era parere comune che portasse
molto bene i suoi quarant’anni e, tra le studentesse, riscuoteva un grande
successo.
«Venga, Sara. Si sieda qui e cerchi di tranquillizzarsi», le disse
accompagnandola a una panchina poco lontano.
«Io li ho visti, professore... credo... ho paura di aver visto i due attentatori. E
sono quasi certa che Carlo Garavaglia li abbia ripresi in alcune foto che mi ha
scattato», mormorò Sara.
Il professore la scrutò in volto con espressione preoccupata.
«Dobbiamo avvertire subito chi di dovere», disse poi. «Ci penso io. Lei non si
muova da qui e non parli con nessuno. Torno subito a prenderla.» Quindi si
diresse quasi correndo verso la più vicina cabina telefonica.
Il professor Caselli si ripresentò pochi minuti più tardi a bordo della propria
auto. Fece salire Sara Terracini e ripartì alla volta dell’abitazione della giovane.

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