La congiura dei fratelli Shakespeare – Bernard Cornwell

SINTESI DEL LIBRO:

La morte mi ha colto dopo che la pendola nel corridoio aveva battuto
nove rintocchi. C’è chi sostiene che Sua Maestà, Elisabetta, per
grazia di Dio regina d’Inghilterra, Francia e Irlanda, non permetta mai
alle pendole che si trovano nei suoi palazzi di battere le ore. Lei
nega al tempo il diritto di trascorrere. Lo ha sconfitto. Eppure quei
rintocchi sono risuonati. Ne ho un chiaro ricordo.
Li ho contati. Nove rintocchi. Subito dopo, l’assassino mi ha
colpito.
E io ho cessato di vivere.
Mio fratello asserisce che c’è un solo modo per raccontare una
storia. «Partire dall’inizio», dice, con la sua solita irritante pedanteria.
«Come, altrimenti?»
Mi rendo conto di essermi spinto un po’ troppo avanti, perciò è il
caso di tornare indietro, a poco prima della mia morte, e ricominciare
da lì.
Immaginatevi, a piacer vostro, una donna. Non più giovane, ma
neppure vecchia. Di alta statura e, come più volte mi è stato riferito,
straordinariamente bella. Nella notte in cui muore indossa una veste
di velluto, di un blu scurissimo, sulla quale è ricamata una miriade di
stelle argentee, ciascuna con una perla al centro. Ogni movimento
del corpo fa spuntare dalla gonna, aperta sul davanti, fluttuanti
pannelli di seta marezzata, di un pallido color lavanda. Lo stesso
prezioso tessuto delinea le spalle della donna, lasciando scorgere
una tinta violetta nelle fenditure che solcano il velluto punteggiato di
stelle. L’orlo della gonna sfiora il pavimento, celando le delicate
pantofole, ricavate da un’antica tappezzeria. Sono scomode, quelle
babbucce, come ogni altra calzatura di stoffa che non sia foderata di
lino o, ancor meglio, di raso. Attorno al collo della donna c’è una
gorgiera, che sulla nuca è molto alta e tanto inamidata da risultare
rigida, e lo splendido viso è incorniciato da una chioma nera come le
ali di un corvo, raccolta in elaborate crocchie o sciolta in boccoli,
interamente cerchiata da fili di perle che fanno il paio con quelli della
collana che penzola sul corsetto. Un diadema d’argento, a sua volta
decorato con perle, rivela l’alto rango della dama, dal cui volto
pallido emana un arcano scintillio, quasi riflettesse la luce di
innumerevoli candele, mentre gli occhi sono tenebrosi e le labbra
tinte di rosso. La schiena è diritta, con i fianchi spinti in avanti e le
spalle tirate indietro, e tale postura mette in evidenza il petto
ricoperto di seta, che non è né troppo ampio né tanto piccolo da
sembrare evanescente, e attira lo sguardo. In quella notte lei ne
attira molti, di sguardi, perché, come più volte mi è stato riferito, è
una creatura di una bellezza ammaliatrice.
La splendida dama è in compagnia di due uomini e di una donna
più giovane. Uno dei tre la ucciderà, cosa che però lei ancora ignora.
Per quanto riguarda la giovane, indossa abiti altrettanto sfarzosi, se
non più, giacché il corsetto e la gonna hanno l’aria di essere costati
parecchio, almeno a giudicare dai pallidi tessuti di seta e dalle pietre
preziose. Ha i capelli biondi raccolti in alto e sul volto un’espressione
di innocente tenerezza, che nasconde però un inganno. Tale donna,
infatti, è disposta a tutto pur di vedere imprigionata e sfigurata quella
più anziana, essendo la sua rivale in amore. E lei, più giovane e non
meno bella, saprà vincere il confronto. I due uomini la ascoltano,
divertiti, mentre insulta la rivale, poi l’osservano afferrare e
abbracciare un pesante piedistallo di ferro che sorregge quattro
candele, mettendosi a danzare come se quell’oggetto fosse un
essere umano. Le candele tremolano, mandano fumo, tuttavia non
cadono. La giovane continua a danzare con leggiadria, poi posa il
piedistallo e lancia un’occhiata fulminante a uno dei due uomini. «Se
tu mi conoscessi», dice con una punta di alterigia, «saresti
consapevole del mio cruccio.»
«Conoscerti?» interviene la donna più anziana. «Oh, tutti sanno
chi sei!» È una secca e arguta replica, ma pronunciata con voce
leggermente ansimante e rauca.
«Del tuo cruccio, signora», replica il più basso dei due uomini,
«tocca a me farmene carico.» Ed estrae un pugnale. Per un attimo
che dura quanto un tremolio di candela si ha l’impressione che lui
stia per affondare la lama nel corpo della donna più giovane, invece
si gira e colpisce l’altra. La pendola, una meravigliosa invenzione
della meccanica, che deve trovarsi nel corridoio confinante con la
sala, ha cominciato a battere le ore e io ne conto i rintocchi.
Gli spettatori trattengono il fiato.
Il pugnale si infila tra il polso e il braccio destro della donna più
anziana. Anche lei ansima, poi vacilla. Nella mano sinistra, che gli
spettatori sconvolti non vedono, c’è un minuscolo punteruolo con cui
la donna perfora una vescica di maiale nascosta in una semplice
sacca di lino, la quale, grazie a un incrocio di cordicelle argentate,
penzola dalla cintura. Quest’ultima, molto graziosa, è di pelle di
capretto color crema e punteggiata da intarsi di stoffa scarlatta a
forma di diamante, sui quali brillano piccole perle. Dalla sacca, una
volta perforata, esce un fiotto di sangue di pecora.
«Mi hanno colpita a morte, ahimè», grida la dama, «mi hanno
uccisa!»
Non ho scritto io queste battute, perciò non sono responsabile
della scelta di farle evidenziare un fatto che dovrebbe già risultare
ovvio. Intanto la donna più giovane comincia a strillare, non perché
sia sconvolta, ma per il giubilo che prova.
La donna più anziana vacilla ancora un po’ e si gira, in modo che
gli spettatori possano vedere il sangue di pecora, che, se la recita
non si svolgesse in un palazzo, non avremmo mai usato, perché la
veste di velluto è troppo pregiata e costosa, ma di fronte a
Elisabetta, per la quale il tempo non esiste, non possiamo lesinare
neppure un penny. Il sangue macchia il velluto della veste, anche se
nessuno degli spettatori se ne accorge perché la stoffa è scura, poi
si spande anche sulla seta color lavanda e qualche goccia cade
sulla tela di canapa distesa a mo’ di protezione sui tappeti turchi. La
moribonda barcolla, lancia altre grida, cade in ginocchio e, dopo
un’ultima esclamazione, spira. Ma, casomai qualcuno immagini che
lei stia solo svenendo, pronuncia due ultime disperate parole: «Io
muoio!» E tira le cuoia.
La pendola ha appena battuto il nono rintocco.
L’assassino sfila dalla chioma del cadavere il diadema e, dopo
essersi esibito in un’ampia riverenza, lo porge alla donna più
giovane. Poi afferra le mani della defunta e con una violenza
ingiustificata trascina il cadavere lontano dagli occhi degli spettatori.
«Qui lasceremo le sue spoglie», dice a voce molto alta, ma
emettendo qualche grugnito per evidenziare lo sforzo che sta
compiendo, «a decomporsi sino alla fine dei tempi.» Nasconde il
corpo dietro un alto paravento, che serve soprattutto a celare una
porta in fondo al palcoscenico ed è decorato con pannelli ricamati,
sui quali spiccano rose rosse e bianche intrecciate che spuntano da
due frondose viti.
«Ti venga un accidente», bisbiglia la defunta.
«Pisciati sulle palle», mormora il suo assassino, che torna sul
palcoscenico, davanti agli spettatori immobili e silenziosi, sconvolti
dall’improvvisa morte di quella splendida dama dai capelli neri.
Ero io la donna più anziana.
La sala in cui avevo appena reso l’anima era illuminata da una
miriade di candele, ma dietro il paravento c’era un’oscurità così fitta
da sembrare quella di una tomba. Strisciai sul pavimento verso la
porta socchiusa e mi insinuai nell’anticamera, sforzandomi di non
spostare il battente, che in alto spuntava dal paravento con le rose e
poteva essere visto dagli spettatori.
«Che Dio ci aiuti, Richard», mi disse Jean, sottovoce. Sfiorò la mia
splendida veste, macchiata dal sangue di pecora. «Che disastro!»
«Si potrà pulire?» le chiesi, alzandomi.
«Forse», mi rispose, dubbiosa, «ma non tornerà mai più come
prima. È un vero peccato.» Jean è una brava donna, vedova, che fa
per noi i lavori di sartoria. «Su, lasciami pulire almeno la seta.» E
andò a prendere una brocca piena d’acqua e un panno.
Lungo le pareti della stanza oziavano alcuni uomini. Fra adulti e
ragazzi, erano in tutto una dozzina. Alan era seduto accanto a due
candele e pronunciava silenziosamente le parole che leggeva su un
lungo foglio di carta, mentre George Bryan e Will Kemp giocavano a
carte, usando come tavolo una delle nostre cassapanche. Kemp
sogghignò. «Un giorno lui ti affonderà quel pugnale nel costato», mi
disse, poi fece una smorfia, simulando un decesso. «Sarebbe felice
di vederti morto. Così come lo sarei io.»
«E allora che venga un accidente pure a te», replicai.
«Dovresti essere gentile con lui», mormorò Jean mentre
cominciava a strofinare le macchie di sangue, senza ottenere alcun
risultato. «Alludo a tuo fratello, ovviamente», aggiunse.
Io rimasi in silenzio e mi limitai a restare accanto a lei, che cercava
di ripulire la veste. Intanto prestavo orecchio agli attori che
recitavano nella grande sala in cui la regina siede sul trono.

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