Il gioco dell’angelo – Carlos Ruiz Zafón

SINTESI DEL LIBRO:
Uno scrittore non dimentica mai la prima volta che accetta qualche
moneta o un elogio in cambio di una storia. Non dimentica mai la
prima volta che avverte nel sangue il dolce veleno della vanità e
crede che, se riuscirà a nascondere a tutti la sua mancanza di
talento, il sogno della letteratura po-trà dargli un tetto sulla testa, un
piatto caldo alla fine della giornata e soprattutto quanto più desidera:
il suo nome stampato su un miserabile pezzo di carta che vivrà
sicuramente più a lungo di lui. Uno scrittore è condannato a
ricordare quell'istante, perché a quel punto è già perduto e la sua
anima ha ormai un prezzo.
La mia prima volta fu un lontano giorno di dicembre del 1917. Avevo
diciassette anni e lavoravo a "La Voz de la Industria", un giornale in
rovina che languiva in un cavernoso edificio che una volta aveva
ospitato una fabbrica di acido solforico e le cui pareti trasudavano
ancora quel vapore che corrodeva i mobili, i vestiti, l'anima e perfino
le suole delle scarpe. La sede del giornale si ergeva oltre la foresta
di angeli e croci del cimitero del Pueblo Nuevo, e da lontano il suo
profilo si confondeva con quello delle tombe di famiglia ritagliate su
un orizzonte accoltellato da centinaia di comignoli e di edifici che
intessevano un perpetuo crepuscolo nero e scarlatto sopra
Barcellona.
La sera in cui sarebbe cambiato il corso della mia vita, il vicedirettore
del giornale, don Basilio Moragas, volle convocarmi poco prima della
chiusura nell'oscuro cubicolo incassato in fondo alla redazione che
funge-va da fumoir di sigari e da ufficio per lui. Don Basilio era un
uomo dall'aspetto feroce e dai baffi rigogliosi che andava per le
spicce e sosteneva la teoria secondo la quale un uso liberale degli
avverbi e l'aggettivazione eccessiva erano cose da pervertiti e da
persone con carenze vitaminiche. Se scopriva un redattore incline
alla prosa fiorita, lo spediva tre settimane a stilare necrologi. Se,
dopo la purga, il soggetto recidivava, don Basilio lo destinava alle
pagine dei lavori domestici vita natural durante. Lo temeva-mo tutti,
e lui lo sapeva.
«Don Basilio, mi ha fatto chiamare?» mi affacciai timidamente.
Il vicedirettore mi guardò di sottecchi. Entrai nell'ufficio che puzzava
di sudore e di tabacco, in quest'ordine. Don Basilio ignorò la mia
presenza e continuò a rivedere uno degli articoli che aveva sulla
scrivania, matita rossa alla mano. Per un paio di minuti mitragliò il
testo di correzioni, quando non si trattava di amputazioni,
masticando improperi come se io non ci fossi. Non sapendo che
fare, notai una sedia appoggiata al muro e feci per accomodarmi.
«Chi le ha detto di sedersi?» mormorò don Basilio senza sollevare
gli occhi dal testo.
Mi alzai in fretta e furia e trattenni il respiro. Il vicedirettore sospirò,
lasciò cadere la matita rossa e si adagiò sulla poltrona per
esaminarmi come se fossi un arnese inservibile.
«Mi hanno detto che lei scrive, Martín.»
Deglutii e quando aprii la bocca ne uscì un ridicolo filo di voce.
«Un po', insomma, non so, voglio dire che, be', sì, scrivo...»
«Sono sicuro che lo farà meglio di come parla. E cosa scrive, se non
so-no indiscreto?»
«Gialli. Mi riferisco a...»
«Ho afferrato l'idea.»
Lo sguardo che mi rivolse don Basilio fu impagabile. Se gli avessi
detto che modellavo statuette del presepe con lo sterco fresco, gli
avrei strappato il triplo dell'entusiasmo. Sospirò di nuovo e si strinse
nelle spalle.
«Vidal dice che lei non se la cava male. Che si fa notare. Certo, con
la concorrenza che c'è da queste parti, non bisogna nemmeno
correre troppo.
Ma se lo dice Vidal.»
Pedro Vidal era la firma più prestigiosa di "La Voz de la Industria".
Aveva una rubrica settimanale di cronaca che costituiva l'unico
pezzo meri-tevole di essere letto in tutto il giornale, ed era autore di
una dozzina di romanzi d'avventura che avevano ottenuto una
modesta popolarità, incen-trati su gangster del Raval coinvolti in
intrighi d'alcova con signore dell'al-ta società. Sempre infilato in
impeccabili completi di seta e lustri mocassi-ni italiani, Vidal aveva
l'aria e l'atteggiamento da attore d'avanspettacolo, con i capelli
biondi sempre ben pettinati, i baffetti a matita e il sorriso facile e
generoso di chi si sente a suo agio nella propria pelle e nel mondo.
Proveniva da una famiglia di "indiani" che avevano fatto fortuna nelle
Americhe con il commercio di zucchero e che al ritorno avevano
affondato i denti nella succulenta torta dell'elettrificazione della città.
Suo padre, il patriarca del clan, era uno degli azionisti di
maggioranza del giornale, e don Pedro utilizzava la redazione come
un parco giochi per ammazzare la noia di non aver dovuto lavorare
un solo giorno per necessità in tutta la vi-ta. Poco importava che il
quotidiano perdesse soldi allo stesso modo in cui perdevano olio le
nuove automobili che cominciavano a scorrazzare per Barcellona:
carica di titoli nobiliari, la dinastia dei Vidal adesso si dedicava a
collezionare nell'Ensanche banche e terreni estesi come piccoli
princi-pati.
Pedro Vidal era stato il primo a cui avevo mostrato gli abbozzi che
scrivevo quando ero appena un bambino e lavoravo portando caffè e
sigarette in redazione. Aveva sempre trovato tempo per me, per
leggere i miei scritti e darmi buoni consigli. A poco a poco mi aveva
trasformato nel suo aiu-tante e mi aveva permesso di battere a
macchina i suoi testi. Era stato lui a dirmi che, se volevo giocarmi il
destino alla roulette russa della letteratura, era disposto ad aiutarmi
e a guidare i miei primi passi. Fedele alla parola, mi gettava adesso
tra gli artigli di don Basilio, il cerbero del giornale.
«Vidal è un sentimentale che crede ancora a leggende
profondamente antispagnole come la meritocrazia o il concedere
opportunità a chi le merita e non al raccomandato di turno. Ricco
sfondato com'è, può permettersi di fare il poeta in giro per il mondo.
Se io avessi la centesima parte dei soldi che a lui avanzano, mi sarei
messo a scrivere sonetti e gli uccellini verrebbero a mangiare dalle
mie mani, incantati dalla mia bontà e dal mio fascino.
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