I miti greci – Robert Graves

SINTESI DEL LIBRO:
All’inizio Eurinome, Dea di Tutte le Cose, emerse nuda dal Caos e non
trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora il mare dal cielo e
intrecciò sola una danza sulle onde. Sempre danzando si diresse verso
sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e
di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l’opera della creazione. Si
voltò all’improvviso, afferrò codesto Vento del Nord e lo soffregò tra le
mani: ed ecco apparire il gran serpente Ofione. Eurinome danzava per
scaldarsi, danzava con ritmo sempre più selvaggio finché Ofione, acceso
di desiderio, avvolse nelle sue spire le membra della dea e a lei si
accoppiò. Ora il Vento del Nord, detto anche Borea, è un vento
fecondatore; spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio,
concepiscono puledri senza l’aiuto di uno stallone.
1 E così anche
Eurinome rimase incinta.
Subito essa, volando sul mare, prese la forma di una colomba e, a tempo
debito, depose l’Uovo Universale. Per ordine della dea, Ofione si
arrotolò sette volte attorno all’uovo, finché questo si schiuse e ne
uscirono tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome: il sole, la luna, i
pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, con i suoi fiumi, con i suoi
alberi e con le erbe e le creature viventi.
Eurinome e Ofione si stabilirono sul Monte Olimpo, ma ben presto
Ofione irritò la dea perché si vantava di essere il creatore dell’Universo.
Eurinome allora lo colpì alla bocca con un calcio, gli spezzò tutti i denti
e lo relegò nelle buie caverne sotterranee.
2
La dea poi creò le sette potenze planetarie e mise a capo di ciascuna di
esse un Titano e una Titanessa: Tia e Iperione al Sole; Febe e Atlante
alla Luna; Dione e Crio al pianeta Marte; Meti e Ceo al pianeta
Mercurio; Temi ed Eurimedonte al pianeta Giove; Teti e Oceano a
Venere; Rea e Crono al pianeta Saturno.
3
Il primo uomo fu Pelasgo,
capostipite dei Pelasgi; egli emerse dal suolo d’Arcadia, subito seguìto
da altri uomini ai quali Pelasgo insegnò come fabbricare capanne e come
nutrirsi di ghiande e cucire tuniche di pelle di porco, simili a quelle che
ancora indossa la gente del contado nell’Eubea e nella Focide.
4
1 In questo complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma
soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava
l’uomo, sua vittima sgomenta. E poiché si pensava che la donna rimanesse
incinta per le virtù fecondatrici del vento o per aver mangiato fagioli o
inghiottito per caso un insetto, la paternità non veniva tenuta in nessun conto;
la successione era matrilineare e si credeva che i serpenti fossero incarnazioni
dei morti. Eurinome («vagante in ampi spazi») era l’appellativo della dea
nella sua epifania lunare. Il suo nome sumerico era Iahu («divina colomba»),
un epiteto che in seguito passò a Geova come Creatore. Fu infatti una
colomba che Marduk tagliò simbolicamente in due durante le Feste
babilonesi della Primavera, quando inaugurò il nuovo ordine del mondo.
2 Ofione, o Borea, è il serpente Demiurgo del mito ebraico ed egiziano, e
nell’arte arcaica mediterranea la dea è sempre raffigurata col serpente al suo
fianco. I Pelasgi autoctoni, che pare pretendessero d’essere nati dai denti di
Ofione, furono forse, in origine, il popolo delle neolitiche «Terracotte
Dipinte». Passarono dalla Palestina alla Grecia continentale verso il 3500 a.C.
e gli antichi portatori della civiltà elladica, emigrati dall’Asia Minore
attraverso le Cicladi, li trovarono insediati nel Peloponneso settecento anni
dopo. Il termine «Pelasgi» venne poi usato in senso lato per indicare tutti gli
abitanti pre-ellenici della Grecia. Secondo Euripide (citato da Strabone, V 2
4) i Pelasgi adottarono il nome di Danai quando Danao con le sue cinquanta
figlie giunse ad Argo (vedi 60 f). Le critiche alla loro condotta licenziosa
(Erodoto, VI 137) si riferiscono probabilmente all’usanza pre-ellenica delle
orge erotiche. Nel passo citato più sopra, Strabone dice che coloro che
vivevano nei pressi di Atene erano noti come Pelargi («cicogne»): forse
questo uccello era il loro totem.
3 I Titani («signori») e le Titanesse ebbero i loro corrispondenti in certe
divinità dell’antica astrologia babilonese e palestinese, preposte ai sette giorni
della sacra settimana planetaria; e il loro culto fu forse introdotto in Grecia da
una colonia cananea, o ittita, che si stabilì sull’istmo di Corinto nel secondo
millennio prima di Cristo (vedi 67 2), oppure dagli antichi portatori della
civiltà elladica. Ma quando il culto dei Titani fu abolito in Grecia e la
settimana di sette giorni cessò di figurare nel calendario ufficiale, certi autori
elevarono il numero di tali divinità a dodici, probabilmente per farlo
corrispondere ai segni dello Zodiaco. Esiodo, Apollodoro, Stefano di
Bisanzio, Pausania e altri ci presentano gli elenchi dei loro nomi, tuttavia
privi di fondamento. Nella mitologia babilonese gli dèi planetari che
regolavano il succedersi dei giorni della settimana, e cioè Samas, Sin, Nergal,
Bel, Beltis e Ninib, erano tutti maschi salvo Beltis, dea dell’amore. Invece
nella settimana germanica, nella quale i Celti avevano imitato lo schema dei
popoli del Mediterraneo orientale, la domenica, il martedì e il venerdì
dipendevano da Titanesse, contrapposte ai Titani. A giudicare dal rango
divino dei figli e delle figlie di Edo, in numero pari questi e quelle (vedi 43
4), e dal mito di Niobe (vedi 77 1), si può supporre che, quando questo
schema religioso giunse dalla Palestina nella Grecia pre-ellenica, una
Titanessa fosse accoppiata a ogni Titano, quasi a salvaguardare gli interessi
della dea. In seguito il numero dei Titani fu ridotto da quattordici a un gruppo
di sette d’ambo i sessi. Le potenze planetarie erano le seguenti: il Sole che
presiedeva alla luce; la Luna che presiedeva agli incantesimi; Marte, alla
crescita; Mercurio, alla saggezza; Giove, alla legge; Venere, all’amore;
Saturno, alla pace. Gli astrologi greci dell’epoca classica seguirono lo schema
dei Babilonesi e aggiudicarono i pianeti a Elio, Selene, Ares, Ermete (o
Apollo), Zeus, Afrodite, Crono; dai loro equivalenti latini, citati più sopra,
derivano i nomi dei giorni della settimana in Francia, Italia e Spagna.
4 Infine, per usare un linguaggio mitico, Zeus divorò i Titani, incluso se
stesso nella sua forma più antica; gli Ebrei di Gerusalemme infatti
veneravano un Dio trascendente, che racchiudeva in sé tutte le potenze
planetarie della settimana: questa teoria è simboleggiata dal calendario dalle
sette braccia e dai Sette Pilastri della Saggezza. Secondo Pausania (III 20 9) i
sette pilastri planetari che si ergevano presso la Tomba del Cavallo a Sparta
erano ornati secondo un modo antiquato, e ciò si ricollegava forse a quei riti
egiziani introdotti in Grecia dai Pelasgi (Erodoto Il 57). Non si sa se gli Ebrei
abbiano preso a prestito questa teoria dagli Egiziani o viceversa; ma il
cosiddetto Zeus eliopolitano di cui parla A. B. Cook nel suo Zeus (I 570-76),
era egiziano nell’aspetto; la guaina che avvolgeva il suo corpo era adorna,
nella parte anteriore, dei busti delle sette potenze planetarie e, nella parte
posteriore, dei busti delle altre divinità olimpiche. Una statuetta bronzea di
questo dio fu trovata a Tortosa in Spagna, un’altra a Biblo in Fenicia; su una
stele marmorea di Marsiglia sono scolpiti sei busti di divinità planetarie e
l’intera figura di Ermete, cui è data un’importanza maggiore, forse perché era
ritenuto inventore dell’astronomia. Anche Giove, a Roma, fu proclamato dio
trascendente da Quinto Valerio Sorano, benché a Roma la settimana non
fosse venerata come a Marsiglia, a Biblo e (probabilmente) a Tortosa. In
Grecia invece le potenze planetarie non prevalsero mai sul culto olimpico
ufficiale, poiché venivano considerate non greche (Erodoto I 131) e dunque
antipatriottiche. Aristofane (La pace 403 e sgg.) fa dire a Trigalo che la Luna
e «quel vecchio furfante del Sole» stanno tramando un complotto per far
cadere la Grecia nelle mani dei barbari persiani.
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