Casino – Elmore Leonard

SINTESI DEL LIBRO:

LA sera che si buscò il proiettile, Vincent se lo vide arrivare. Il tizio si
scostò dal lampione all'angolo della Meridian con la Sedicesima, South
Beach, e affrontò Vincent che aveva appena parcheggiato la macchina e stava
rincasando. Era presto, pochi minuti dopo le nove.
Vincent si girò a guardarlo e ci fu un momento in cui avrebbe potuto
sopraffarlo, e lo pensò anche, considerò se prenderlo a calci e a pugni. Ma
aveva appena fatto la spesa. Non aveva molta voglia di lasciar cadere sul
marciapiede un bottiglione di Borgogna Gallo Hearty, una bottiglia di succo
di prugna e un barattolo di ragù. Nemmeno quando quel figlio di buona
donna esibì la pistola, lo insultò tra i denti e gli disse che voleva il suo
portafogli e tutto il denaro che aveva addosso. Non era grosso, era trasandato,
indossava una maglietta e un paio di stivali da motociclista e puzzava. Gli
sembrò di averlo già visto, nella cella dei fermati al reparto investigativo.
Nessuna meraviglia. I rapinatori sono dei recidivi nella loro perenne
esasperazione psichica, spesso stupidi, sempre disperati. Arrivano carichi di
adrenalina nella speranza di fare il colpo e dileguarsi. Vincent pensò di dargli
tempo perché si calmasse.
Gli disse: «Vedi quella macchina? Standard Plymouth, non un'ombra di
accessorio, nemmeno i coprimozzo?» Era di color grigio chiaro. «Ti sembro
il tipo di andare a comperarmi una macchina come quella?» Forse l'altro era
fatto, comunque non gli dava retta. Vincent fu costretto ad essere esplicito:
«È una macchina della polizia, scemo. Adesso dammi quella pistola e vai a
mettere le mani sul tetto».
Avrebbe dovuto posare a terra il sacchetto e consegnargli il portafogli
oppure urlargli in faccia di darsela a gambe, subito, se non voleva finire
ammazzato. Invece fece il furbo e si buscò una pallottola.
Costui non sarebbe andato a mettere le mani su alcuna macchina della
polizia, lo aveva già fatto fin troppe volte, da quel che si scoprì in seguito, e
non gli aveva fruttato un bel niente. Sparò dall'altezza dell'anca e fu appunto
lì che Vincent si prese la prima pallottola, nell'anca destra, da parte a parte. Il
calibro 38 scheggiò l'osso, intaccò l'ilio, mancò l'incavatura di un paio di
centimetri, ma così deviato andò a sollevare un pandemonio altrove: gli
trapassò l'alto gluteo, strappandogli via la tasca posteriore con il portafogli
che conteneva diciassette dollari e facendogli saltare la pistola dalla cintura. Il
secondo proiettile attraversò il Borgogna, passando fra il braccio destro e la
scatola toracica di Vincent. A questo punto Vincent lasciò cadere il sacchetto
e si gettò sulla sua pistola, gridando all'aggressore, che stava scappando, di
fermarsi altrimenti avrebbe fatto fuoco. E qui dovette imparare un'altra
lezione. Se ti lasci andare a una promessa, mantienila. Il fuggiasco si fermò,
questo sì, ma si girò e riprese a sparare. Frattanto Vincent era a terra a cercare
di recuperare la sua Smith & Wesson, modello 39, un'automatica di nove
millimetri, fra cocci di vetro e sugo per spaghetti. La trovò e aprì il fuoco,
scaricò a suo avviso quattro colpi, tre dei quali andarono a colpire il
rapinatore sotto il braccio destro e gli traforarono entrambi i polmoni.
Al pronto soccorso del Sinai, strapparono a Vincent la camicia di dosso
alla ricerca di una ferita al torace, finché un infermiere non lo fiutò e disse,
Cristo, è vino. Gli fecero una radiografia, gli chiusero il foro di uscita del
proiettile con un intervento chirurgico, gli collegarono alcuni tubicini di
plastica e gli ripulirono vetri da entrambe le mani.
Trascorse la notte al reparto di cure intensive e l'indomani mattina fu
trasferito in una camera privata, trattato con tutti gli onori. L'infermiera che
andò a controllarlo dichiarò: «A me sembra che stia benissimo». Vincent
rispose come no, grazie. A parte un dolore terribile, quaggiù. Le indicò dove
e precisò: «Al pene». Non lo aveva mai chiamato così. L'infermiera glielo
prese nella mano e gli rimosse dolcemente il catetere e lui si innamorò di lei,
del suo simpatico copricapo, dei suoi denti perfetti, del suo corpo rigoglioso
in quella divisa bianca e inamidata. Quella sera lei gli spalmò una lozione
sulla schiena, sulle spalle, gli massaggiò delicatamente il gluteo dolorante e
lui la ribattezzò Miss Mani Magiche. Il suo vero nome era Ginny.
Perdutamente innamorato, lui le confidò che gli faceva male anche il lato
anteriore dell'anca, maledettamente male, proprio là dove la gamba si
congiunge al busto. Ginny gli regalò un sorriso malizioso e il flacone di
plastica con la lozione. Lui le chiese se le sarebbe piaciuto andare a Portorico.
Lui ci doveva andare. C'era già stato una volta e aveva trovato la cucina
squisita. Ci era andato a prelevare un ricercato e si era trattenuto per tre o
quattro giorni in attesa che un magistrato firmasse il mandato. Era stato a
trovare un amico della polizia portoricana, ma in quell'occasione non era
andato a Roosevelt Roads. Era da lì che sì era imbarcato suo padre per finire
ucciso ad Anzio, alla guida di un mezzo da sbarco durante l'invasione
dell'Italia. Vincent avrebbe voluto vedere Roosevelt Roads. A casa aveva una
fotografia di suo padre scattata a El Yunque, nella foresta pluviale:
l'immagine di un giovane marinaro, un timoniere, il berretto bianco un dito
dalle sopracciglia, sorriso smagliante, nient'altro che nuvole sulla montagna
dietro di lui; un giovane che Vincent non aveva mai conosciuto, ma che gli
era vagamente familiare. Ormai aveva vent'anni più di suo padre. Che
situazione si sarebbe creata, se fosse loro-capitato di incontrarsi? Sua madre
recitava rosari nella speranza che accadesse.?

SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :

Commento all'articolo

Potresti aver perso questo