Amami ancora, nonostante tutto – Alessia Iorio

SINTESI DEL LIBRO:
Corro verso la palestra del campus mentre la pioggia continua a
scrosciarmi addosso, spingo la grande porta in vetro ed entro,
facendomi avvolgere dal tepore. Piove davvero forte oggi, cosa
tipica di Seattle, e il breve tragitto dal dormitorio a qui è bastato per
sentirmi intorpidito. Mi strofino le mani e lancio un’occhiata alla sala
principale, tutti alla Washington University dormono a quest’ora e c’è
solo una categoria di studenti che si alza così presto per dedicarsi a
due ore di allenamenti estenuanti: quelli che devono sostenere un
provino. Cammino con passo spedito fino allo spogliatoio e
raggiungo il mio armadietto, mi libero dei vestiti fradici e mi infilo dei
pantaloncini sportivi neri e una maglietta a maniche corte bianca, poi
lascio il cambio ad asciugare consapevole che prima di andare a
lezione dovrò tornare al dormitorio per cambiarmi.
Mi incammino verso la sala pesi e inizio con i primi esercizi, sono
intenzionato ad allenarmi fino allo sfinimento se dovesse servire, il
mese prossimo ci sarà il provino per i Seattle Seahawks e io voglio
essere selezionato. Sono anni che gioco a football, sono sempre
stato un ottimo quarterback e ora ho l’occasione di diventare
qualcuno e di fare ciò che mi viene meglio nella vita. Voglio vincere.
Voglio diventare un giocatore professionista, un campione, qualcuno
che nessuno credeva potessi essere. Quello che lei pensa che io
non possa essere.
La porta che sbatte mi fa sussultare, ma non mi volto a guardare
di chi si tratta. So che è Chase, il runningback della squadra e il mio
migliore amico. Frequentiamo medicina insieme e giochiamo nella
squadra del college dall’anno scorso, quando siamo arrivati qui. Mi
piace la squadra, ma gli altri ragazzi sono una banda di stronzi
concentrati solo sul risultato finale. Chase mi capisce, è l’unico che
vuole esattamente ciò che voglio io, il fatto che i nostri ruoli siano
diversi poi, è un altro punto a suo favore.
«Dannazione, diluvia!» esclama, sbattendo l’ombrello sul
pavimento. Si toglie la giacca buttandola su una panca in legno, non
usa mai lo spogliatoio quando siamo soli ed è talmente fuori di testa
da venire qui in pantaloncini. Chi diavolo esce in pantaloncini nel
mese di novembre, a Seattle? Chase mi si avvicina e inizia con i
suoi esercizi mentre mi fissa in silenzio. Ha gli occhi neri come la
pece, proprio come i capelli, è piuttosto difficile non lasciarsi
intimidire dal suo sguardo.
«Tutto bene?» mi chiede.
Alzo le spalle e fingo indifferenza. Ormai non mi ricordo nemmeno
più quando è stata l’ultima volta in cui non sono stato arrabbiato con
qualcuno, con lei.
«Come sempre» borbotto.
Prende una corda dal cesto nell’angolo, inizia a saltare e a parlare
mentre alcune parole si perdono nell’aria. «Hai pensato a cosa farai
con l’università se ci selezioneranno?» bofonchia.
Annuisco e mi asciugo il sudore dalla fronte con la maglietta.
«Non so, non sono tagliato per fare il medico».
«Stronzate, secondo me dovresti rifletterci».
È fissato con questa storia, ma non capisce che di fare il medico
non me ne importa più niente. Volevo farlo solo per lei, ma ora non
conta più ormai e l’unica cosa che mi interessa davvero è il football.
Preferisco usare il mio tempo per fare qualcosa che mi appaga
piuttosto che per qualcosa che non sento appartenermi più.
«Pensiamo al presente, Chase».
Tronco la discussione e mi metto le cuffie. Non voglio più parlare
di questa storia, sono stufo di sentirmi dire cosa devo fare.
Le due ore si concludono troppo in fretta e, quando ritorno nello
spogliatoio per cambiarmi, ho la piacevole sorpresa di trovare i miei
vestiti asciutti. Non sono il meglio, ma non mi importa un accidente
del mio aspetto e nemmeno di andare a lezione in realtà, ma i crediti
sono importanti e il provino è alle porte. Devo tenere duro.
Mi faccio una doccia e, mezz’ora più tardi, mi incammino verso
l’uscita salutando Chase con una pacca sulla spalla. Sospiro di
sollievo perché ha smesso di piovere e raggiungo il padiglione in cui
avrò lezione, spingo la porta principale e faccio una smorfia quando
il chiacchiericcio degli studenti mi raggiunge.
Sono davanti all’aula di comunicazione e non voglio entrare
perché so che la vedrò. È l’unico corso che abbiamo in comune, un
corso che mi piace e che ora odio perché mi obbliga a vedere l’unica
persona che non mi vuole. Prendo un respiro profondo e mi decido
ad entrare, al diavolo tutto. L’aula è deserta, manca quasi un’ora
all’inizio della lezione e la gente normale arriva a un orario normale,
ma io devo studiare. Non posso permettermi di far calare la mia
media, sono bravo nel football, ma resto sempre David Collins. Non
sono nessuno.
Salgo i gradini a due a due e vado a sedermi nella fila più alta, ma
quando sollevo lo sguardo e mi fermo con un piede su un gradino e
uno sull’altro, mi manca il respiro. Continuo a camminare e fingo di
non averla vista, butto la borsa per terra e mi tolgo la giacca senza
nascondere il mio fastidio.
Osservo i suoi capelli rossi, mossi fino a metà schiena, e penso a
quanto vorrei passarci le dita in mezzo. Lei si gira e mi fissa con i
suoi enormi occhi verdi, vuole parlarmi e toccarmi, ma non mi vuole
davvero. Non mi vorrà mai abbastanza da renderlo reale. Lo so
come funziona tra noi, potrei continuare ad accettarlo dato che l’ho
fatto per anni, ma non mi va più. Scuoto la testa e prendo i libri che
mi servono per preparare il mio prossimo esame, li apro e resto in
piedi mentre la osservo camminare verso di me. Indossa dei
semplici jeans e un maglione rosa, ma è bellissima. Destiny si ferma
davanti a me e appoggia le mani sul banco fissandomi negli occhi.
«Dobbiamo parlare» sbotta.
La sua voce è un sibilo, sputa fuori quelle due parole con
disprezzo. Sbuffo e alzo le mani, mi allontano da lei.
«Io non ho più niente da dirti, Des. Ho chiuso».
Picchia un pugno sul tavolo e mi fissa con quegli occhi verdi
accesi dalla rabbia e… mi fa impazzire.
«Beh, io invece ho qualcosa da dire e tu mi ascolterai! Dove sei
stato?».
Scoppio a ridere e mi allontano, siamo ancora soli e prevedo che i
toni si alzeranno parecchio visti i nostri rapporti. Odio litigare con lei,
ma quando si comporta così non mi lascia scelta.
«Non sono affari tuoi» sibilo.
«Sono affari miei se decidi di rovinarti la vita. Sei ancora fissato
con il football! Perché? Sei brillante, David! Puoi diventare un
chirurgo di successo, papà può darti un posto prestigioso nel suo
ospedale. Ti rendi conto dell’opportunità che stai gettando via?
Perché non torni a casa poi? Non puoi restare a vivere qui, al
dormitorio!» esclama con le guance rosse per la rabbia.
«Non voglio diventare un chirurgo di successo, Des. Non me ne
frega niente di avere la carità di tuo padre e nemmeno la tua. E non
tornerò a casa. Non finché sarò costretto a vederti ogni giorno, mi
basta già doverti incontrare in questo maledetto posto. E sto
continuando a studiare, non sto buttando via niente».
Sbatte un pugno sui libri che ho appoggiato sul banco e impreca,
poi mi viene incontro fissandomi con una rabbia divoratrice negli
occhi e io ho solo voglia di baciarla. Ecco perché non torno a casa.
«Non puoi cambiare le tue priorità solo perché io sono diventata il
tuo problema!».
«Potresti essere la soluzione, lo sai?» sibilo «Potresti essere la
mia soluzione, ma sei talmente concentrata su te stessa da non
riuscire a vedere quello che hai davanti. E ora è troppo tardi».
Des solleva il mento e incrocia le braccia al petto in segno di sfida.
«Tu sei affar mio».
«Davvero?» chiedo in tono ironico.
Muove un passo verso di me e si sbatte la mano sul petto.
«Davvero, è sempre stato così».
Scuoto la testa e resto immobile davanti a lei. Lo credevo anch’io,
mi sono illuso per anni cercando in lei qualcosa che in realtà
esisteva solo dentro di me.
«Ma tu non mi vuoi, vero?» sussurro, sfiorando le sue labbra con
le mie. Des trattiene il respiro e sgrana quegli occhi enormi,
fissandomi in silenzio, poi si allontana da me e inizia a camminare
all’indietro. Seguo i suoi passi e mi avvicino, i nostri corpi quasi si
sfiorano, ma non la tocco. Mi ha chiesto di non toccarla più e non lo
farò. Non sono nessuno, ma la rispetto.
«Dave» bisbiglia, distogliendo lo sguardo.
«Non vado bene per te, vero?» continuo.
Voglio che lo ammetta, così potrò andare avanti o almeno
provarci.
«Non è così, lo sai».
«Non lo so, spiegamelo» ribatto.
Sospira e sbatte le palpebre, cercando di trattenere le lacrime.
Se fossi meno accecato dalla rabbia, me ne importerebbe
qualcosa e mi fermerei prima di aprire di nuovo la bocca, ma la
rabbia è qualcosa che non so controllare e le parole nemmeno.
«Non è così e basta» ripete.?
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