Statico – L. A. Witt

SINTESI DEL LIBRO:
DAMON
quando il cellulare della mia ragazza mi reindirizzò per la quarta
volta di fila alla sua segreteria telefonica nel giro di ventiquattro
ore, ero ormai ben oltre la semplice preoccupazione.
Camminavo avanti e indietro accanto al tavolo della cucina,
fissando il telefono quasi che da un momento all’altro dovesse
cominciare a squillare, come stavo pregando che facesse. Il giorno
prima, Alex era andata a trovare i suoi genitori con cui era in pessimi
rapporti e, ogni volta, dopo quei rari incontri non era inusuale che si
barricasse in casa e chiudesse fuori il mondo per un po’. Quando lo
faceva, mi preoccupavo sempre da morire – riusciva a bere quantità
incredibili di alcol nei momenti in cui era turbata – ma la mattina
successiva mi mandava sempre un messaggio per farmi sapere che
stava bene. Ubriaca, probabilmente depressa, ma stava bene.
Quella mattina, però, il messaggio non era arrivato.
Ero quasi certo che le cose non fossero andate bene. Come
sempre. Mi ero ripetuto per tutto il giorno che aveva solo bisogno di
un po’ di spazio, di tempo. Non volevo soffocarla, ma porca miseria,
qualcosa di quella situazione puzzava di bruciato.
Controllai l’orologio. Erano quasi le otto. Erano passate più di
trentasei ore dal loro incontro, quasi quarantotto da quando l’avevo
sentita l’ultima volta. Qualcosa non andava. Doveva essere così.
Presi il telefono e le chiavi. Presentandomi in quel modo alla sua
porta forse l’avrei fatta arrabbiare. Probabilmente si sarebbe
infastidita per la mia intrusione prima che fosse pronta ad affrontare
di nuovo il mondo, ma almeno l’avrei saputa a casa sana e salva.
Uscii dal vialetto, ignorando il limite di velocità. Vivevamo a venti
minuti di macchina l’uno dall’altra ed ero determinato a raggiungerla
in quindici. Dieci, se non avessi trovato traffico.
Non avevo mai incontrato la famiglia di Alex. Mi aveva parlato un
po’ di loro, ma bastava vedere quanto la innervosisse anche solo
sentirli nominare per farsene un’idea. Non mi sarei sorpreso se
avessi scoperto che da piccola avevano abusato di lei, e non
soltanto in modo subdolo e manipolativo come sospettavo stessero
continuando a fare adesso. Alex era incline a cedere a momenti
imprevedibili di profonda depressione, che negli ultimi sei mesi circa
erano diventati sempre più frequenti, non solo dopo le visite dai suoi
genitori. Attraversava delle fasi, che potevano durare ore, giorni o
anche settimane, durante le quali si tirava indietro al primo accenno
di intimità fisica. Un braccio attorno al collo, che di solito la faceva
sciogliere contro di me, la faceva invece ritrarre come un cane
bastonato, e non riuscivo più a capire quando le servisse spazio e
quando vicinanza.
Poi, praticamente nel giro di una notte, diventava insaziabile.
Ogni volta che gliene chiedevo il motivo, si chiudeva a riccio. Mi
scusavo, distoglievo lo sguardo e cambiavo argomento.
Che ti hanno fatto, piccola?
Svoltando nella strada su cui si affacciava la casa di Alex, presi
alcuni respiri profondi per cercare di calmarmi. Stava bene.
Probabilmente era ancora ubriaca e incazzata, ma non più
dell’ultima volta che si era incontrata con i suoi genitori. Stavo
esagerando. Ero troppo protettivo.
O forse no.
Finalmente arrivai in vista della casa. L’auto di Alex era
parcheggiata davanti al garage e dalla finestra del soggiorno
traspariva la luce fioca di una singola lampada. Non c’erano altre
vetture nel vialetto o lungo la strada, perciò immaginai che fosse da
sola. Presumendo, ovviamente, che fosse in casa. Qualcun altro
l’avrebbe potuta accompagnare altrove, oppure…
Tranquillo, Damon. Non saltare subito alle conclusioni.
Con il cuore che batteva forte, parcheggiai la macchina accanto
alla sua. Mentre avanzavo verso il portico esitai per un momento,
chiedendomi per la centesima volta se si sarebbe arrabbiata con me
quando sarebbe stato chiaro che non desiderava vedere nessuno.
Dopo un paio di tentennamenti, mi costrinsi a raggiungere la
porta e, senza darmi il tempo di cambiare ulteriormente idea, bussai.
Aspettai. Inclinai appena la testa, in ascolto, per cogliere anche il
minimo movimento dall’altra parte.
Niente.
Il cuore cominciò a battermi più in fretta. Bussai di nuovo, questa
volta con maggiore forza.
Ancora niente.
Mi dondolai appena sui talloni, fissando la porta e chiedendomi
se fosse meglio provare una terza volta o andarmene. Lasciai
scorrere il pollice sul mazzo di chiavi che tenevo nel giubbino,
facendole scorrere una sull’altra. Attaccate all’anello avevo anche
quelle di lei. Sarei potuto entrare. Maledizione, dove stava la linea
tra preoccupazione e invadenza?
Un altro tentativo. Se non risponde, me ne vado.
Toc. Toc. Toc. Silenzio.
Feci un lungo sospiro, sentendomi stringere lo stomaco. Non
c’era. O non voleva rispondermi. In ogni caso, non sarei rimasto lì
fuori tutta la notte, perciò mi voltai, deciso ad andarmene.
Un rumore all’interno della casa mi bloccò sul posto. Restai
immobile, in ascolto, e il lieve suono di passi in avvicinamento mi
scatenò un’ondata di sollievo nelle vene.
La serratura scattò e io sospirai.
Poi la porta si aprì e quel sollievo si trasformò in qualcos’altro.
Qualcosa di molto più freddo.
«Chi caz...» Rabbia e confusione presero il sopravvento mentre
fissavo l’uomo in piedi sulla soglia. Lui si sporse in avanti e appoggiò
un braccio allo stipite. Sul volto gli passò un’espressione vagamente
sorpresa e raddrizzò la sua postura, ma la stanchezza nei suoi occhi
ne attutì l’effetto. Mi chiesi se fosse ubriaco. O se magari l’avessi
svegliato. Se si fosse appena alzato dal letto della mia ragazza. Mi
resi conto che era fin troppo probabile che fosse andata proprio così.
Era pallido, aveva lo sguardo assonnato, indossava soltanto un paio
di pantaloni di felpa grigi e lo stato scompigliato dei suoi capelli corti
implicava molto più di quanto desiderassi sapere.
Alex, piccola, dimmi che non…
Ritrovai la voce che avevo perso. «Chi cazzo sei?»
Con un sussurro appena udibile e gli occhi semichiusi, lui
rispose: «Forse è meglio se ti siedi. Entra e…»
«Dimmi che cazzo sta succedendo e basta.»
Sobbalzò e chiuse gli occhi. «Posso spiegare,» bisbigliò. «Non è
come sembra. Non ci si avvicina neppure.»
Io risi amaramente. «Oh, sono certo che non lo sia.» La rabbia
che contenevo a stento aumentava a ogni parola, così come il
volume della mia voce. «Immagino che tu le stia semplicemente
tenendo compagnia. Dove cazzo è? Dove…»
«Damon.»
«Tu… tu sai chi sono?»
«Sì, lo so.» Si portò una mano alla tempia e fece una smorfia
prima di continuare. «Per favore, non urlare. Sei scioccato, lo
capisco e ti spiegherò tutto, ma…» Un’altra smorfia di dolore. «Per
favore. Non. Urlare.»
Ero così arrabbiato che avrei voluto afferrarlo per le spalle e
mostrargli cosa significasse davvero la parola “urlare”, ma riuscii a
trattenermi. Con voce più bassa, risposi: «Che sta succedendo?»
Il tizio arretrò di un passo e mi fece cenno di entrare. Esitai, ma
poi lo seguii in casa di Alex. Lui chiuse la porta e vi si appoggiò con
le spalle, massaggiandosi gli occhi con le mani, lasciandosi sfuggire
un basso gemito. La luce era fioca, ma non abbastanza da
nascondere il suo pallore.
«Stai…» Lo guardai meglio. «Stai bene?»
«No.» Abbassò le mani e appoggiò la nuca al pannello dietro di
lui. Aveva gli occhi cerchiati e l’ombra di barba sulla mascella non
faceva che enfatizzare il suo scarso colorito. Dopo un momento
riaprì gli occhi ma, con una smorfia, li coprì di nuovo con le mani. «Ti
sembrerà una richiesta strana, ma accontentami. Mi devo
distendere.
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