La via del guerriero di pace. Un libro che cambia la vita letto da Jacopo Venturiero – Dan Millman

SINTESI DEL LIBRO:
La stazione di servizio
alla fine dell'arcobaleno
“La vita comincia”, mi dissi mentre salutavo i miei genitori e mi
allontanavo sulla mia scolorita, ma vecchia e fidata Valiant bianca, stipata
di tutto quello che doveva servirmi durante il mio primo anno di università.
Mi sentivo forte, indipendente e pronto a tutto.
Cantando più forte della musica della radio, mi diressi a nord lungo il
reticolo di autostrade di Los Angeles, poi imboccai la Grapevine fino alla
statale 99, che attraversava le verdi pianure coltivate ai piedi della catena
delle San Gabriel Mountains.
Poco prima del tramonto, la tortuosa discesa dalle colline di Oakland mi
offrì il magnifico spettacolo della baia di San Francisco. Più mi avvicinavo
al campus di Berkeley e più la mia eccitazione cresceva.
Mi sistemai nella stanza che mi era stata assegnata, disfeci i bagagli e
contemplai dalla finestra il Golden Gate e le luci di San Francisco che
brillavano nella sera.
Cinque minuti più tardi camminavo per la Telegraph Avenue guardando
le vetrine dei negozi, respirando la fresca aria della California settentrionale
e godendomi gli aromi che uscivano dai piccoli caffè. Commosso da tutta
quella bellezza, passeggiai per il magnifico parco del campus fino a oltre la
mezzanotte.
Il mattino seguente, dopo colazione, mi diressi verso l’Harmon
Gymnasium, la palestra in cui mi sarei allenato sei giorni alla settimana:
quattro ore quotidiane di allenamenti, salti, capriole e sudore per alimentare
il mio sogno di diventare un campione.
Due giorni dopo ero già immerso in un mare di persone, libri e orari di
lezione. I mesi si susseguivano dolcemente come le miti stagioni della
California. Alle lezioni sopravvivevo, in palestra prosperavo. Una volta, un
amico mi aveva detto che ero nato per fare l'acrobata. Di certo ne avevo
l'aspetto: i capelli corti, e un corpo asciutto e muscoloso. Avevo sempre
provato attrazione per le acrobazie più pericolose e sin da bambino mi
piaceva provare il brivido della paura. La palestra era diventata il mio
santuario; lì trovavo eccitazione, sfide e un altissimo livello di
soddisfazione.
Prima della fine del secondo anno di università avevo gareggiato in
Germania, Francia e Inghilterra con la Federazione di ginnastica degli Stati
Uniti. Avevo vinto il campionato del mondo di tappeto elastico, i trofei
riempivano un angolo intero della mia stanza. La mia foto appariva sul
Daily Californian con tale regolarità che la gente mi riconosceva per strada
e la mia fama cresceva sempre di più. Le ragazze mi sorridevano. Gli
incontri amorosi con Susie, un'appetitosa e dolcissima bionda con un
sorriso da pubblicità di dentifrici, diventavano sempre più frequenti. I miei
studi andavano benissimo. Mi sentivo sulla vetta del mondo.
Tuttavia, all'inizio dell'autunno del 1966, il mio terzo anno di università,
cominciò a prendere forma qualcosa di oscuro e inafferrabile. Avevo
lasciato il campus e mi ero trasferito in un piccolo appartamento. Ero
schiacciato da una tristezza sempre più opprimente, anche nel pieno dei
miei successi. Poi iniziarono gli incubi. Mi svegliavo di soprassalto quasi
ogni notte, madido di sudore. Il sogno era quasi sempre lo stesso:
Cammino per una strada buia. Alti edifici senza porte né finestre
incombono su di me, avvolti da un impenetrabile banco di nebbia.
Una figura minacciosa, vestita di nero, viene verso di me a grandi
passi. Percepisco, piuttosto che vedere, una presenza che mi dà i
brividi, un livido teschio luccicante che mi fissa in mortale silenzio
con le sue orbite nere. L’osso scheletrico di un dito è teso verso di me,
le bianche ossa piegate come un artiglio. Mi sento agghiacciare.
Dietro quella cosa orribile appare un uomo dai capelli bianchi. Il
suo volto è tranquillo e privo di rughe. I suoi passi non producono
alcun suono. Sento che è la mia unica speranza di salvezza, che ha il
potere di salvarmi. Ma non mi vede e io non posso chiamarlo.
Ridendo della mia paura, la Morte ammantata di nero si gira verso
l'uomo dai capelli bianchi, che le ride in faccia. Stordito, guardo la
Morte che cerca furiosamente di afferrarlo. L’attimo dopo, lo spettro
si sta di nuovo gettando contro di me, ma il vecchio lo prende per il
mantello e lo scaglia per aria.
Di colpo la Morte scompare. L’uomo dai lucenti capelli bianchi mi
guarda e mi tende le mani in un gesto di benvenuto. Cammino verso di
lui e poi dentro di lui, scomparendo nel suo corpo. Mi guardo e vedo
che indosso una veste nera. Alzo le mani e vedo le ossa delle mie dita
che si uniscono in preghiera.
Mi svegliavo boccheggiando.
Una notte, all'inizio di dicembre, ero a letto e ascoltavo il sibilo del vento
che si infilava in una piccola fessura della finestra. Incapace di prendere
sonno, mi alzai e mi infilai i miei Levi's sbiaditi, una maglietta e le scarpe
da ginnastica. Poi presi un giubbotto e uscii nella notte. Erano le tre e
cinque del mattino.
Camminavo senza meta, inalando a pieni polmoni l'aria fresca e umida,
contemplando il cielo stellato e ascoltando i rari suoni delle strade deserte.
L’aria fresca mi aveva messo fame e mi diressi verso una stazione di
servizio aperta tutta la notte per comprare dei dolci e qualcosa da bere. Con
le mani in tasca attraversai il campus e poco oltre i dormitori degli studenti
mi apparvero le luci della stazione di servizio. Era un'oasi fluorescente in un
deserto di negozi, cinema e ristoranti chiusi.
Superai l'officina attigua alla stazione di servizio e andai quasi a sbattere
contro un uomo che sedeva al buio su una sedia a ridosso del muro di
mattoni rossi. Arretrai, sorpreso. L’uomo indossava un berretto rosso di
lana, pantaloni grigi di velluto, calzini bianchi e sandali giapponesi.
Sembrava perfettamente a suo agio in un leggero piumino, sebbene il
termometro sopra la sua testa segnasse appena sei gradi.
Senza alzare lo sguardo, con una voce forte e musicale disse: “Mi scusi,
non volevo spaventarla”.
“Oh, si figuri. Vendete qualcosa da bere, bibite?”.
“Solo succhi di frutta”. Sorridendomi, si tolse il berretto di lana rivelando
una folta chioma bianca. Poi, inaspettatamente, scoppiò in una risata.
Quella risata! Lo fissai a bocca aperta. Era il vecchio del mio sogno.
Capelli bianchi, il viso privo di rughe... una figura alta e slanciata sui
cinquanta o i sessanta. Scoppiò di nuovo a ridere. Inebetito, mi diressi verso
la porta con la scritta ‘Ufficio’ e la spalancai. Mentre la aprivo, sentii che
stavo aprendo una porta su un'altra dimensione. Mi lasciai cadere tremante
su un vecchio divano, chiedendomi che cosa aveva fatto irruzione attraverso
quella porta nel mio mondo così ordinato, e con tanta potenza. Il mio terrore
era misto a una misteriosa fascinazione che non capivo. Feci dei profondi
respiri per calmarmi e ritornare al mondo reale.
Mi guardai attorno. L’ufficio era molto diverso dal disordine e dalla
trascuratezza di una normale stazione di servizio. Il divano su cui mi ero
lasciato cadere era coperto da una vecchia coperta messicana a vivaci
colori. Su uno scaffale alla mia sinistra, accanto alla porta, erano
ordinatamente disposti i vari oggetti utili a chi è in viaggio: cartine stradali,
fusibili, occhiali da sole e così via. Dietro una piccola scrivania in legno di
noce c'era una sedia di velluto di un caldo color terra. Un distributore
dell'acqua proteggeva una porta con la scritta ‘Privato’. Un'altra porta
conduceva nell'officina.
Ciò che mi colpiva di più era l'atmosfera di intimità della stanza. Uno
spesso tappeto giallo oro copriva tutto il pavimento, fino alla porta. I muri
erano imbiancati di fresco e ingentiliti da poster di paesaggi naturali. La
luce smorzata delle lampade mi calmò: un rilassante contrasto con le luci al
neon dell'esterno. Nel suo insieme, la stanza trasmetteva un rassicurante
senso di ordine e di calore.
Come avrei potuto immaginare che sarebbe diventato un luogo di
avventura, di magia e anche di paura? In quel momento pensai soltanto che
un caminetto ci sarebbe stato bene.
Dopo qualche minuto il mio respiro affannoso si placò e la mia mente,
anche se non completamente acquietata, per lo meno aveva smesso di
vorticare. La somiglianza dell'uomo dai capelli bianchi con la figura del
mio sogno era certamente una coincidenza. Mi alzai, chiusi la cerniera del
giubbotto e uscii nell'aria fredda della notte.
Lui era ancora seduto nello stesso posto. Mentre lo superavo lanciandogli
un ultimo sguardo furtivo, colsi una strana luce nei suoi occhi. Non avevo
mai visto occhi come quelli. Sul momento mi sembrarono gonfi di lacrime
pronte a straripare, poi le lacrime si trasformarono in uno scintillio, come se
vi si riflettesse la luce delle stelle. Mi lasciai assorbire sempre più
profondamente dal suo sguardo, finché furono le stelle a diventare un
riflesso dei suoi occhi. Per un attimo mi persi: non vedevo altro che quegli
occhi, gli occhi spalancati e curiosi di un bambino.
Non so quanto durò: secondi, minuti, o forse molto di più. Poi, di colpo,
ritornai alla coscienza normale. Farfugliai un vago ‘buonanotte’ e girai
l'angolo dell'officina con le gambe che mi tremavano ancora.
Quando raggiunsi il marciapiede dall'altra parte della strada, mi fermai.
Sentivo come un formicolio alla nuca. Sapevo che mi stava osservando. Mi
voltai. Non potevano essere passati più di quindici secondi da quando
l'avevo salutato, ma lui era là in piedi sul tetto, con le braccia incrociate sul
petto e gli occhi rivolti al cielo stellato! A bocca aperta fissai la sedia vuota
appoggiata al muro, poi guardai di nuovo in alto. Era impossibile! Se
l'avessi visto cambiare una ruota a una carrozza fatta con una zucca gigante
e trainata da un topo gigantesco, l'effetto non avrebbe potuto essere più
stupefacente.
Nel silenzio della notte fissai la sua figura slanciata, una presenza
maestosa anche a quella distanza. Mi sembrò di udire le stelle rintoccare
come campane mosse dal vento. Poi lui girò la testa e mi guardò negli
occhi. Era a circa venti metri da me, ma riuscivo a sentire il suo alito sul
mio viso. Tremai, ma non per il freddo. Quella porta dietro cui la realtà si
dissolveva nel sogno, si spalancò di nuovo. Non riuscivo a staccargli lo
sguardo di dosso.
“Sì?”, disse. “Posso fare qualcosa per te?”. Parole profetiche!
“Mi scusi, io...”.
“Sei scusato”, disse sorridendo.
Mi sentii arrossire; cominciavo a irritarmi. Stava giocando con me, ma io
non conoscevo le regole del gioco.
“Come ha fatto ad arrivare sul tetto?”.
“Arrivare sul tetto?”, ripeté con aria innocente, come se fosse stupito
dalla mia domanda.
“Sì. Come ha fatto ad arrivare da quella sedia”, la indicai, “sul tetto in
meno di venti secondi? Lei era seduto, io ho girato l'angolo, e lei...”.
“So benissimo quello che ho fatto”, risuonò la sua voce potente. “Non
occorre che tu me lo dica. La domanda è: sai quello che stavi facendo tu?”.
“Certo che so quello che stavo facendo!”. Mi stavo arrabbiando, non ero
un bambino a cui dare lezioni. Ma morivo dalla voglia di scoprire il trucco
ginnico del vecchio, perciò mi trattenni e chiesi educatamente: “La prego,
mi dica come ha fatto ad arrivare sul tetto”.
Mi fissò in silenzio, mentre percepivo di nuovo quel formicolio alla nuca.
Poi rispose: “Con una scala. È dall'altra parte”. E ritornò a contemplare il
cielo.
Feci di corsa il giro dell'edificio. In effetti, una vecchia scala era
appoggiata precariamente contro il muro sul retro. Ma, tra la fine della scala
e il tetto, mancava almeno un metro e mezzo. Anche se si fosse servito della
scala, cosa di cui dubitavo, come aveva fatto a salire lassù in pochissimi
secondi?
Qualcosa si posò sulla mia spalla. Sorpreso, mi voltai e vedi che la mano
sulla mia spalla era la sua. Come aveva fatto? Era balzato giù dal tetto e mi
aveva preso alle spalle senza che me ne accorgessi? Formulai l'unica
spiegazione possibile: aveva un gemello e insieme si divertivano a
terrorizzare gli ignari clienti. Misi subito in chiaro che avevo scoperto il
trucco.
“D’accordo, siete due gemelli. Non mi lascio fregare”.
Aggrottò leggermente la fronte, poi scoppiò a ridere. Visto? Avevo
ragione. Ma non ne ero tanto sicuro.
“Se avessi un gemello, pensi che sarei quello dei due che spreca il suo
tempo a parlare con il signor ‘non mi lascio fregare’?”. Scoppiò in un'altra
risata e si diresse a grandi passi verso l'officina, lasciandomi lì a bocca
aperta. Che sangue freddo quel vecchio!
Lo seguii nell'officina, dove si stava già dando da fare con il carburatore
di un vecchio furgoncino Ford.
“Così, lei pensa che sia uno che si fa prendere in giro?”, dissi in tono più
bellicoso di quanto volessi.
“Tutti ci facciamo prendere in giro”, rispose. “La differenza è che alcuni
lo sanno, altri no. Tu sembri appartenere a questo secondo tipo. Ti spiace
passarmi quella chiave inglese?”.
Gli passai la sua dannata chiave inglese e mi voltai per andarmene. Ma
prima di uscire pensai: devo sapere. “La prego, mi dica come ha fatto a
salire sul tetto a quella velocità! Non riesco davvero a capire”.
Mi ripassò la chiave. “Il mondo è un enigma. È inutile cercare di trovarvi
un senso”. Indicò uno scaffale alle mie spalle. “Adesso, per favore, mi
servirebbero un martello e un cacciavite
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