Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza – Fred Vargas

SINTESI DEL LIBRO:
Se questo lunedí di Pasqua 2001, pongo mano a un’opera apparentemente
scherzosa, non è certo allo scopo di farvi ridere. Stronco sul nascere ogni
speranza, già all’esordio. Credetemi, è meglio cosí.
Per la verità, un tempo ambivo a consegnare al mondo una piccola
raccolta di aforismi sul tema dell’esistenza umana, e quando dico «piccola» è
per modo di dire: piccola per volume, certo, ma grande per contenuto, e cosí
mirabilmente concentrata che da ogni pagina sarebbe scaturito il fuoco sacro
della Verità sull’Esistenza, intendo la Vita, né piú né meno.
In seguito pensai di sacrificare quegli aforismi a un discorso piú ampio,
perché l’aforisma ha questo di irritante: che ti lascia a piedi, con la tua breve
massima, senza spiegarti il perché e il percome delle cose. Esercizio
virtuosistico, quindi, ma deludente. Optai allora per quella forma intermedia
ideale che è il Piccolo trattato sulle verità dell’esistenza, costellato qua e là di
aforismi. Serenamente, attendevo il momento propizio per redigere questa
opera densa e sostanziosa, accumulando per ogni dove i materiali
indispensabili a costruirla.
Ma si dà il caso che il momento sia arrivato, ed è un’ottima notizia per
tutti.
Quando dico «piccolo», è una scelta: non confondiamo massa e valore. Il
trattato troppo prolisso è solo la laboriosa diluizione di precetti titubanti e
tradisce l’incompetenza dell’autore in materia, intendo la Vita. Ma le verità
sull’esistenza sono frecce d’oro che puntano dritto al bersaglio, né piú né
meno, e la natura eminentemente piccola dell’opera attesta le certezze
dell’autore, al cui intelletto acuto non interessano le diluizioni. Un vero
artefice di Trattati sa di cosa parla e va al sodo, senza recalcitrare. In un
centinaio di pagine la faccenda deve essere risolta.
Tanto piú che grazie al suo modico spessore il benefico trattato può stare
in tutte le tasche e infilarsi, discreto, possente e ricreativo, nella cinta dei
calzoni, nella manica del sari, nella tunica del beduino. All’inopinato
manifestarsi del minimo dubbio sull’esistenza è lí, a portata di mano del
lettore riconoscente. Con un’occhiata, il problema è presto risolto. In
qualunque circostanza, al bar, in biblioteca, in aereo, in piroga o su una
panchina pubblica, tutti luoghi propizi all’emergere delle questioni
esistenziali, vi appartate con il vostro compendio e, in meno tempo di quanto
ne occorra a leggerlo, vi ritrovate ben attrezzati e ferratissimi sull’argomento.
Perché qui non si tratta di rifilarvi un testo sibillino, senza capo né coda, che
si dipani alla rinfusa secondo il capriccio dell’autore. Sarebbe una mancanza
di carità e di buon senso contraria all’obiettivo di questo opus: struttura,
chiarezza, concisione e soluzioni, cosí ha da essere un buon trattato sulle
verità della vita.
E preferisco dirvi subito che questo sarà un trattato definitivo. Prima, solo
cosucce, goffi tentativi, spiacevoli fraintendimenti. Prova ne sia che oggi
nessuno può vantarsi di possedere risposte sui misteri della vita, e l’intero
pianeta continua a vagolare tra crisi di panico e abbagli. Però, in fin dei conti
siamo nel 2001, e sarebbe proprio ora di fare qualcosa. Abbiamo aspettato
anche troppo. Che da trentamila anni si prenda la rincorsa per saltare meglio,
d’accordo, posso anche accettarlo. Ma a un certo punto quel che è troppo è
troppo, e diventa imperativo afferrare il toro per le corna. Con questa
metafora intendo la Vita, e i suoi misteri. Ogni nuovo giorno consegna il suo
quantitativo di quesiti insolubili e facendo il conto in mesi, in anni, pensate
quale cumulo di incertezze ci opprime, conferendo alla nostra esistenza
quell’incedere vacillante dovuto ai milioni di cavolate che instancabilmente
ripetiamo. Mentre è cosí semplice, con un piccolo trattato efficace, né piú né
meno, guidare con baldanza i nostri passi. Mentre è cosí facile, in un
centinaio di pagine, dare sollievo al nostro peregrinare.
L’autore che recalcitrasse ad accollarsi questo onere sarebbe ai miei occhi,
non lo nascondo, uno sporco egoista, che preferisce sbevazzare al bar con gli
amici invece di dedicare una settimanella del suo tempo ad alleviare i dubbi
lancinanti dell’umanità. Sí, un bastardo bell’e buono. E tutto fa pensare che
gli autori preferiscano – triste effetto della nostra epoca individualistica –
sbevazzare o sguazzare nelle tiepide acque dell’oceano Indiano invece di
chinarsi per qualche giorno sulla tastiera, il che mi sembra il minimo dovuto
ai nostri fratelli umani nel bisogno.
A tutt’oggi, infatti, non esiste, che io sappia, nessun trattato aforistico che
risolva definitivamente i problemi dell’esistenza. Ne avremmo avuto notizia.
Ciò implica che tutti gli autori sbevazzano e sguazzano, e dispiace per la
categoria. Quindi, poiché io sola sembro consapevole della responsabilità che
ci tocca, poiché io sola, inchiodata al mio programma di lavoro, ho il senso
del dovere, come il cavallo da tiro che sente gravare sul garrese il peso
morale del collare a spalla (ebbene sí, si dice «collare a spalla» per il cavallo
e «giogo» per il bove, cominciamo subito a mettere in chiaro l’essenziale),
poiché io sola mi ergo sul sentiero solitario, preoccupata per l’incuria dei
miei confratelli e avvertendo il soffocato grido d’allarme dell’umanità, io sola
intraprendo il cammino e butto giú l’essenziale di ciò che bisogna sapere
nella vita per cavarsela tra i molteplici misteri che essa s’ingegna a sbatterci
in faccia.
Detto fatto, afferro il bastone del pellegrino e gli stivali, e via. È il
momento giusto, è Pasqua, ho qualche giorno libero, a cui per pura bontà farò
il sacrificio di aggiungere qualche serata e qualche domenica, poiché sono
convinta che non bisogna tirarsi indietro e la soluzione dei misteri della vita
esige che vi si dedichino otto giorni, non è poi la fine del mondo. Dopodiché,
io sarò a posto con la mia coscienza e voi sarete a posto con le vostre verità, e
sarà sempre una cosa fatta che non è piú da fare. Perché, come amava dire
mia nonna, «quello che è fatto non è piú da fare», ma non voglio annoiarvi
con le mie storie di famiglia.
Non sono infatti una di quelli che, con la scusa degli aforismi e
considerando solo il proprio benessere narcisistico, vi infliggono ottocento
pagine sul padre (o la madre, dipende, a volte è la mamma, ma ci torneremo
sopra, statene certi) e sul paesello natale. No, questa letteratura ombelicale
frutto di uno spiacevole malinteso scaturito da una errata lettura di Proust
(avrò occasione di riparlarvi di questo punto che è parte integrante dei misteri
dell’esistenza) non mi interessa.
Sappiate comunque che per parte di madre discendo da una grossa
famiglia di bifolchi ben radicata in una fiera parrocchia della Normandia, la
cui natura microscopica non deve occultarne la nobiltà, intendo Villiersd’Écaudart, centodieci elettori. Il campanile della sua chiesa svetta maestoso
sulla campagna, dominando l’immensità dei pascoli fangosi formicolanti di
vacche, messi e barbabietole. No, lungi da me l’idea di annoiarvi con le mie
storie di famiglia, poiché questo piccolo trattato aspira all’universalità, nella
sua piú nobile accezione, senza la quale non potrebbe diventare quella guida
incomparabile per tutto il genere umano che si propone di essere.
Tuttavia, per non voler annoiare troppo il lettore con i propri guai di
famiglia, si fa presto a sottacerli. E qui dico subito: «Attenzione!» Passare un
colpo di spugna su Villiers-d’Écaudart non sarebbe un bel modo per
cominciare quest’opera, in realtà sarebbe un errore concettuale di base.
Perché i problemi di famiglia sono parte integrante dei misteri della vita, a dir
poco. Quindi, talvolta sarà indispensabile menzionare con discrezione, fra
altri luoghi di portata universale, quella fiera parrocchia il cui vetusto
campanile svetta sui campi fradici, pullulanti di lombrichi.
Lombrichi che rappresentano comunque, in massa ponderale, il settanta
per cento del mondo animale, esseri umani compresi: insomma, un bel
malloppo che pesa sul pianeta. Obietterete che questa brutale statistica svela
una realtà poco allettante. Forse sí, ma è la vita, e preferisco avvertirvi subito
che, quanto alla vita, questo trattato non ci girerà certo intorno. Poiché la
nobiltà e la forza di ogni compendio di verità consiste proprio nel non trattare
coi guanti i misteri dell’esistenza, altrimenti si perde e s’impantana come i
ruscelli tra le sabbie scintillanti delle spiagge normanne. Ma lungi da me
l’idea di annoiarvi con la Normandia. Ho citato questo esempio come avrei
potuto sceglierne qualunque altro. E quei lombrichi non solo non soffocano il
pianeta con la loro mostruosa massa invertebrata, ma scavano e scavano
l’humus fin nelle sue piú segrete profondità, senza nemmeno sapere,
poveracci, perché lo fanno. Mentre noi, invece, lo sappiamo. Ma non sto
scrivendo un compendio destinato ai lombrichi, quindi accantoniamo per il
momento il muto interrogativo che li accompagna nel corso della loro nobile
vita. Dico nobile perché, scavando alla cieca, perforano, trapanano, trivellano
e in tal modo, lo avrete capito, aerano la terra, che non è assolutamente in
grado di aerarsi da sé. Forse sarà dura ammetterlo, ma è cosí. In tal modo
aerando, nell’ignoranza della loro condizione di minuscoli animaletti, dànno
libero corso alla magica crescita dei vegetali, a loro volta mangiati dagli
erbivori, a loro volta mangiati dagli onnivori e dai carnivori. Quanto a noi,
mangiamo di tutto: lombrichi, vegetali, erbivori, onnivori (mi riferisco al
maiale), carnivori e compagnia bella. Sí, anche i carnivori, e in un’epoca non
tanto remota i Galli mangiavano i cani, e non voglio scocciarvi parlando degli
altri popoli, è un esempio che mira all’internazionalità.
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