Notte buia, niente stelle – Stephen King

SINTESI DEL LIBRO:

 Mi chiamo Wilfred Leland
James. Questa è la mia confessione.
Nel giugno del 1922 uccisi mia
moglie, Arlette Christina Winters
James, e mi liberai del cadavere
gettandolo in un vecchio pozzo. Mio
figlio, Henry Freeman James, mi
aiutò a compiere il crimine, ma
aveva quattordici anni e non va
ritenuto responsabile. Fui io a
plagiarlo, facendo leva sulle sue
paure e vincendo, in un paio di mesi,
ogni sua naturale resistenza. Di
questo mi sento colpevole più che
dell'omicidio, per ragioni che vi
saranno evidenti leggendo quanto
segue.
La causa del mio crimine e della
mia dannazione va ricercata in cento
acri di terra fertile a Hemingford
Home, Nebraska. Mia moglie li
aveva ereditati da suo padre, John
Henry Winters. Io avrei voluto
aggiungere quella terra al nostro
podere, che nel '22 misurava ottanta
acri; invece mia moglie, che non si
era mai abituata alla vita in
campagna (né a essere la moglie di
un agricoltore), voleva venderli alla
compagnia Farrington. Quando le
chiesi se davvero volesse vivere
sottovento a una porcilaia, disse che
avremmo potuto vendere pure la
fattoria. La fattoria di mio padre, e
di suo padre prima di lui! E che ci
avremmo fatto con quei soldi, senza
la terra? le chiesi. Rispose che
avremmo potuto trasferirci a Omaha,
o addirittura a St. Louis, e aprire un
negozio.
«Non potrei mai vivere a
Omaha», dissi. «Le città sono per gli
stupidi.»
Suona ironico, visto dove mi
trovo adesso, ma non rimarrò qui a
lungo, lo so, come so cosa provoca i
rumori che sento nei muri, e so dove
andrò al termine della mia vita
terrena. Chissà se l'inferno è tanto
peggio di Omaha. Forse l'inferno è
Omaha, ma senza la bella campagna
intorno: soltanto desolazione e
arsura, e odore di zolfo, e anime
perse come la mia.
Nell'inverno e primavera del '22
litigammo parecchio per quei cento
acri. Henry si ritrovò in mezzo, ma
era più incline a dare ragione a me.
Se nell'aspetto era tutto sua madre,
da me aveva preso l'amore per la
terra. Era un ragazzo docile, privo
della supponenza di Arlette.
Ripeteva che non voleva vivere a
Omaha né in qualunque altra città, e
ci sarebbe andato solo se avessimo
trovato un accordo, cosa che non
avvenne mai.
Pensai di rivolgermi a un
avvocato. Poiché ero il
capofamiglia, qualunque tribunale
avrebbe fatto rispettare il mio diritto
di decidere l'uso di quella terra. Ne
ero certo. Tuttavia, qualcosa mi fece
desistere. Non fu il timore delle
chiacchiere dei vicini: me ne fregavo
dei pettegolezzi di campagna. No, si
trattava di altro. Vedete, ero arrivato
a odiarla. Ero arrivato a volerla
morta. Fu quello a trattenermi.
Io credo che dentro ogni uomo
ne viva un altro, un estraneo, un
Mestatore. E credo che già nel
marzo del '22, quando i cieli sulla
contea di Hemingford erano bianchi
e ogni campo era un pantano di neve
e fanghiglia, il Mestatore che stava
in Wilfred James, agricoltore, avesse
giudicato mia moglie ed emesso la
sentenza. Una sentenza da cappuccio
nero. La Bibbia dice che un figlio
ingrato è come un morso di serpente,
ma una moglie ingrata e petulante è
anche peggiore.
Io non sono un mostro. Ci
provai, a salvarla dal Mestatore. Le
dissi che, se non avessimo trovato
un accordo, c'era sempre la casa di
sua madre a Lincoln. Lincoln è
sessanta miglia più a ovest, una
distanza giusta per una separazione,
che non è un divorzio ma scioglie
già il vincolo coniugale.
«Certo, e la terra di mio padre
rimarrebbe a te!» replicò, scuotendo
la testa alla sua solita maniera.
Quanto odiavo quel modo
impudente di scrollare il capo, da
pony addestrato male, e quanto
odiavo lo sbuffo di naso che lo
accompagnava. «Te lo puoi
scordare, Wilf.»
Rilanciai: visto che ci teneva
tanto, la terra gliel'avrei pagata. Ci
avrei messo del tempo - «otto anni,
forse anche dieci» - ma le avrei dato
fino all'ultimo centesimo.
«Pochi soldi alla volta è peggio
che stare in bolletta», rispose, con
un'altra scrollata del capo e un altro
sbuffo di naso. «Non c'è donna che
non lo sappia. La Farrington pagherà
tutto subito, e mi sa che la loro idea
di buona offerta sia meglio della tua.
E poi io non voglio andarci, a
Lincoln. Non è una città, è un
paesotto come gli altri, con più
chiese che case.»
Capite o no in che situazione mi
trovavo? Capite fin dove mi aveva
spinto? Posso far conto su almeno
un po' della vostra comprensione?
No? E allora state a sentire.
Ai primi di aprile di quell'anno,
esattamente otto anni fa, Arlette
rincasò tutta linda e risplendente.
Era stata a McCook, al salone di
bellezza. I capelli le ricadevano sui
lati del viso in gonfi boccoli che mi
ricordarono i rotoli di carta igienica
degli alberghi. Disse che le era
venuta un'idea: avremmo venduto
alla Farrington sia i cento acri sia la
fattoria. Loro avrebbero comprato
tutto quanto pur di avere il lotto di
suo padre, perché era vicino alla
ferrovia. E probabilmente aveva
ragione.
«Dopodiché», disse quella cagna
spudorata, «potremo dividere i soldi,
divorziare e iniziare una nuova vita,
ognuno per conto suo. Lo sappiamo
tutti e due che desideri questo.»
Come se non lo desiderasse
anche lei.
«Uhm», feci, fingendo di
pensarci su. «E il ragazzo con chi
va?»
«Con me, naturalmente!»
replicò, sgranando gli occhi. «Un
ragazzo di quattordici anni deve
stare con sua madre.»
Quel giorno stesso iniziai a
lavorarmi Henry. Gli spiegai l'ultima
idea di sua madre. Sedevamo nella
stalla, io indossavo la mia faccia
mesta e parlavo con la più triste
delle voci, illustrandogli come
sarebbe stata la sua vita se Arlette
avesse avuto via libera. Senza più
fattoria, né padre, senza gli amici
con cui era cresciuto, si sarebbe
ritrovato in una scuola molto più
grande, e in quella nuova scuola
avrebbe dovuto lottare per il suo
spazio, in mezzo a estranei che gli
avrebbero riso dietro e lo avrebbero
chiamato «bifolco». Invece,
proseguii, se ci fossimo tenuti tutta
la terra, certamente saremmo riusciti
a regolare i conti con la banca entro
il '25 e saremmo vissuti felici e
senza debiti, respirando aria pulita,
altro che budella di porco a galla nel
nostro limpido ruscello da mane a
sera.
«Allora, cos'è che vuoi?» gli
chiesi, dopo aver dipinto il quadro
nei minimi dettagli.
«Voglio stare qui con te, babbo.»
Aveva le guance rigate di lacrime.
«Ma perché lei dev'essere così...
perché dev'essere una tale...»
«Dillo pure, figliolo», lo esortai,
«la verità non è mai sporca.»
«Una tale puttanai
«Perché quasi tutte le donne lo
sono», dissi. «È una cosa
inestirpabile, fa parte della loro
natura. Il problema, adesso, è cosa
possiamo fare noi.»
In realtà, il Mestatore aveva già
pensato al vecchio pozzo dietro la
stalla, che usavamo per l'acqua delle
mucche. Era profondo non più di
cinque metri, e ormai c'era quasi
solo melma. Mi restava solo da
convincere mio figlio. Dovevo farlo,
certamente lo capite.

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