Ballata delle montagne perdute – Danilo Manera

SINTESI DEL LIBRO:
Se pronunciò a voce alta il proprio nome e grado fu soprattutto per
identificarsi di fronte a se stesso: confermare che era lui, lì, lungo
quella strada gelata, nella prima notte in cui sentiva ben chiaro
dentro che la più grande guerra di tutti i tempi era davvero finita.
Attraverso le velature di neve, aveva scorto nel buio le lanterne
ondeggianti della pattuglia di ronda, le stesse che luccicavano in
fondo ai camminamenti delle trincee. Non c’era un filo di vento e
cadevano lente, leggere e irrimediabili infinite divisioni di fiocchi.
Il chi va là era arrivato in ritardo, quasi sorpreso. I fanti pensarono
a un qualche insondabile controllo o incombenza, a quell’ora
impossibile. Avevano smesso di farsi domande sugli ufficiali.
Salutarono e proseguirono, rossi di freddo e forse di vino, certo
d’impazienza: era tempo di tornare a casa, non di fare la guardia a
niente dietro le linee dell’ex nemico. Si persero nell’oscurità, oltre i
muri silenziosi. Nella direzione opposta, prendevano forma le
sagome irte e sbiancate degli alberi di un piccolo parco.
Il suono degli stivali era diverso sulla neve fresca, sul ghiaccio,
sulle orme lasciate da altri, sui cumuli ai bordi della via, sui rari punti
protetti dove affiorava il selciato o la terra dura con il suo strato di
foglie marce. Sotto la superficie ghiacciata di un piccolo canale, si
sentiva lo scorrere dell’acqua: un gorgogliare cristallino, per quanto
attutito. Aurelio si fermò sul ponticello che lo scavalcava e si mise ad
ascoltare. L’acqua e la neve. Gli sembrò un concerto così puro da
potersi riconciliare con l’emozione che lo spingeva a camminare.
Rivide l’ampia sala, riscaldata da una grande stufa ardente e
circondata tutt’attorno da un divano basso coperto da tele e tappeti
multicolori. Sul pavimento di legno c’erano altri tappeti, di lana più
grezza, e bassi tavolini circolari con dolci, caffè e acquavite. Da una
porta sul fondo erano entrate una dozzina di ragazze con il capo
coperto da fazzoletti ricamati a fiori che scendevano fin sulle spalle,
ampie gonne e grembiuli da festa a righe sottili, sui toni del rosso,
con motivi in bianco, giallo e bruno. Portavano un corpetto scuro
anch’esso ricamato e una cintura di stoffa chiusa da due grandi
ganci d’argento sulla camicia bianca ornata di trine.
Tra i presenti si era fatto il silenzio. E in mezzo a quel silenzio,
provenendo da chissà quale perduto respiro, dopo aver attraversato
steppe e secoli, sgorgò un canto. S’alzò naturalissima una voce
perentoria, con accenti di pena e di rimpianto, ma anche
d’indignazione e di desiderio. Altre voci risposero, unendosi a tratti
tutte, con forza, in un coro di inusitata polifonia, grondante
d’armoniche. Anche la solista s’inerpicava flessibile per sentieri di
melodiosa dissonanza, con scale di note contigue a intervalli ridotti e
tempi dispari cangianti. Gli unici strumenti erano un tamburello per i
brani più ritmati e un lungo flauto di legno che una ragazza teneva
né dritto né traverso, ma solo lievemente di lato, alla sua destra. Ne
usciva un suono acuto e sinuoso, perfettamente fuso con le tese
voci protagoniste del canto.
Quella preghiera avvolgente gli drogò udito e animo. Era
estenuante e carnale, insieme timida e violenta, in un susseguirsi di
pianissimi e pienissimi, rapide grida e intervalli con assoli del flauto.
Per lui, in quel momento interminabile, nella sala e nell’universo
c’erano ormai soltanto quelle giovinette, alcune ancora adolescenti,
altre che dimostravano una ventina d’anni, percepite come un solo
organismo che gli trasmetteva un senso di compiutezza e
comunione, come se tutte le cose avessero riacquistato, grazie a
quella magia, senso e direzione. S’era accesa in lui una fiammella
che restituiva un significato vitale al computo delle temperature.
Anche la loro lingua, così inestricabile nella quotidianità, gli
arrivava come vicina, calda, vocalica: una cascata di sillabe una a
una comprensibili, benché assemblate in modo insolito. Ebbe quasi
una vertigine quando, in omaggio agli ospiti, eseguirono anche due
canzoni in spagnolo antico, dal contrappunto familiare. Fu allora che
si accorse da quale fonte proveniva la luce che aveva preso a
brillargli dentro. Incrociò gli occhi di giaietto della solista di quei due
brani e non poté più lasciarli. I suoi riccioli color mogano scendevano
liberi fino al seno, mentre le altre ragazze portavano i capelli raccolti
in trecce. Quando tacque, il volto le si aprì in un sorriso indecifrabile,
smarrito, di una felicità quasi sgomenta.
Qualcosa di indicibile fu spezzato, e ci volle un altro po’ di silenzio
prima che tutti si riscuotessero: il colonnello cominciò ad applaudire,
all’unisono con il comandante della guarnigione, e gli altri gli tennero
dietro.
Aurelio era diviso tra la voglia di isolarsi in un’ebbrezza personale
e la smania di saperne di più di quella ragazza. Pur frequentandolo
da non molto tempo, poteva già considerare un amico Josif
Rubenov, il tenente della riserva incaricato di gestire i rapporti con gli
ufficiali delle truppe d’occupazione. Era suo coetaneo, parlava un
buon italiano, avendo trascorso un paio d’anni a Livorno, e nutriva
come lui una forte inclinazione per la musica. Josif gli spiegò che le
ultime due canzoni tradizionali, La rosa enflorese e Scalerica de oro,
erano nella parlata sefardita della comunità ebraica locale, di cui
faceva parte lui stesso, come pure quattro delle ragazze del coro: le
tre sorelle Brocamo e Ljuba Alfandari, la sua fidanzata. Aurelio
trasalì, ma si riprese subito quando Josif chiarì che la voce solista
era quella di Vida Brocamo.
Gli chiese se sarebbe parso sconveniente rivolgerle la parola in
quella circostanza e Josif alzò le sopracciglia, allargando le braccia:
di certo l’avrebbe messa in imbarazzo, c’erano quasi solo autorità
militari e consorti. Infatti le ragazze si ritirarono subito, sfilando via
tranquille. E gli ufficiali si dedicarono a scambi di cordialità che
richiesero l’opera di Josif come interprete. Aurelio trovò una scusa e
si allontanò, a ricamare di orme la neve che invadeva imperturbabile
la città di Vratsa e tutto il nordovest della Bulgaria, dai Balcani al
Danubio.
Attraversò il parco avvolto nelle tenebre bianche, sentendo i
fiocchi che gli morivano sul viso ardente. Poco oltre, gli sembrò di
riconoscere il profilo di un gruppo di villini. Era finito proprio nel
quartiere dov’era alloggiato. Il custode sonnecchiava dietro la porta,
intabarrato. La domestica aveva tenuto accesa la stufa di terracotta
della sua stanza. Si accorse con gratitudine di quel tepore, fece
appena in tempo a spogliarsi e crollò nel sonno.
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