Bastardi in salsa rossa – Joe R. Lansdale

SINTESI DEL LIBRO:
Mi stavo ancora riprendendo dal fatto di essere morto e,
lasciatemelo dire, si trattava di un ritorno in piena regola.
Sono morto due volte in ospedale, dopo essere stato accoltellato,
e l’ultima cosa che ricordo prima del risveglio dalla morte è che
Leonard era lí, a ingozzarsi di biscotti, mentre attendeva che mi
riprendessi. A dire il vero ero sveglio, ma riuscivo a tenere gli occhi
aperti appena quanto bastava per vedere lui. Mi sentivo alla deriva
su una barca lenta diretta verso il nulla, con un bastone infilato nel
pisello. Che poi si è rivelato essere un catetere, solo che a me
sembrava un bastone. E pure bello grosso.
Medici e infermieri mi avevano salvato dal fosso immenso e
oscuro, e quando tornai in superficie non fu a Gesú che dissi grazie.
Ringraziai lo staff di medici, i loro anni di preparazione, le loro
enormi capacità. Ho sempre immaginato che, se fossi stato un
dottore e avessi salvato la vita a qualcuno, e quel qualcuno si fosse
risvegliato e avesse detto «grazie Gesú», gli avrei infilato un paio di
pinze su per il culo e gli avrei detto di provare a vedere se Gesú
poteva tirargliele fuori.
Morale della favola, ero tornato. Mi ci volle qualche mese per
rimettermi in sesto, ma alla fine ci riuscii quasi del tutto, e ormai ero
praticamente autonomo. Avevo perso qualche chilo mentre facevo la
dieta del tubo-in-gola (non lo stesso tubo che era nel mio uccello, mi
preme specificarlo), ma negli ultimi tempi ero tornato in gran forma.
Sentivo di poter sollevare due quintali e mettere al tappeto un gorilla
incazzato, anche se forse non in uno scontro leale.
Detto questo, c’erano anche giorni in cui avrei voluto piangere
ininterrottamente e avevo la concentrazione di uno scoiattolo. I
dottori mi avevano avvisato che ci sarebbero stati giorni cosí, giorni
in cui non solo realizzavo di essere mortale, ma dovevo anche fare i
conti con il concetto. Guardare i cartoni mi aiutava. Mi ripresi
piuttosto velocemente e i dottori si meravigliarono della quasi totale
assenza di stress postraumatico. A loro non l’ho detto, ma ho
pensato, No, quello ce l’ho solo quando ammazzo la gente, e ho
imparato a convivere con quel genere di stress, come se si trattasse
di un compagno attaccabrighe. Avevo fatto parecchia pratica, visto
che conoscevo Leonard da tutta una vita. Ma la velocità di recupero
l’ho sempre avuta. Di capacità di recupero e testa dura ne avevo in
abbondanza.
Insomma c’ero, stavo meglio, ero tornato al lavoro, mi sentivo
abbastanza normale, tranne per le brevi visite della fatina della
mortalità e per le rare occasioni in cui mi preoccupavo della morte
termica del sistema solare, provocata dall’inevitabile esplosione del
sole. Sono un tipo un po’ ansioso.
Quel giorno avevo da svolgere del lavoro d’ufficio nell’agenzia di
investigazioni Brett Sawyer, dove lavoravo per la mia ragazza, Brett,
e col mio migliore amico, Leonard. Ero seduto con i piedi sulla
scrivania, constatando che i miei calzini erano spaiati, e mi sentivo
come il classico investigatore privato, anche se le mie capacità
investigative erano al livello di quelle matematiche e io sono l’ultima
persona alla quale dovreste chiedere di farvi la dichiarazione dei
redditi. Ma sono un tipo tenace. Ecco un’altra caratteristica da
aggiungere alla velocità di recupero e alla testa dura. Quando avevo
sedici anni, mio padre mi procurò un lavoro: dovevo aiutare un tizio a
raccogliere legna e abbattere vecchie case che aveva comprato per
rivendere il legname di scarto. Il mio primo giorno di lavoro, mio
padre gli disse: «Potrebbe fare cazzate, ma non è uno che molla».
Da allora, questo è diventato una specie di motto personale.
Mi trovavo in ufficio da solo perché quella mattina nessun altro
poteva essere lí. Leonard era a Houston a fare sesso con un
ragazzo conosciuto in rete, cosa che mi rendeva nervoso per
entrambi, e Brett si stava curando un’influenza. Condivideva il
malanno con una giovane donna di nome Chance, che a quanto
pareva era mia figlia. Il test del Dna lo provava, e io ne ero
veramente felice. La conoscevo solo da poco tempo, ma si era
integrata nella famiglia, che comprendeva me, Brett, Leonard e il
cane Buffy, come se fosse stata con noi sin dalla nascita.
Chance viveva a casa nostra, lavorava part-time al giornale locale
come correttrice di bozze e cercava un impiego a tempo pieno.
Aveva una laurea in Giornalismo, che è come avere una laurea in
Latino: non serve a un granché.
Come Brett, Chance non era al lavoro, era a casa con l’influenza
e riposava sul divano. Ero quasi certo che sarei stato il prossimo a
beccarmi il virus, ma per il momento mi sentivo alla grande. Dopo
essere stato accoltellato allo stomaco ed essere morto per un po’, la
tosse e il raffreddore potevano anche baciarmi il culo.
Buffy, la femmina di pastore tedesco che Leonard aveva salvato
da uno stronzo che la prendeva a calci, in quel momento era con
me, sdraiata sul divano. Era una cagna educata, e molto piú
addomesticata di me. Chiedete a Brett. Ve lo confermerà.
Era una bella mattinata, sedevo in ufficio con un paio di jeans
nuovi nel quale, come aveva detto per una volta la mia signora, il
mio culo stava a meraviglia, e indossavo anche delle scarpe nuove,
che Buffy aveva rosicchiato solo un pochino. Avevo anche un bel
maglione verde senza macchie di cibo. La biancheria intima era
pulita. I capelli un po’ radi erano pettinati e bevevo una tazza di caffè
con vera panna e una bustina di dolcificante. Avevo pure una
confezione aperta dei biscotti alla vaniglia di Leonard, che lui aveva
nascosto dietro il frigorifero dell’ufficio, ed erano deliziosi. Non solo
per il sapore, ma perché Leonard pensava che fossero ben nascosti.
Avevo intenzione di mangiarli tutti e di rimettere il sacchetto vuoto
dietro il frigo. Avrei anche potuto infilare dentro il sacchetto un
bigliettino che diceva: «La fatina dei biscotti è stata qui. Fanculo. In
ospedale non me li hai offerti».
Mentre me ne stavo lí seduto, riflettendo sul mio ritorno dalla
morte, credo che stesse cominciando a prendere piede il classico
pensiero sulla natura dell’universo che ti porta a un passo da una di
quelle brillanti rivelazioni che si possono trovare in un libro di
filosofia, quando la porta si aprí e una signora di colore entrò
nell’ufficio.
Era molto curata, sovrappeso, indossava dei pantaloni rossi
elasticizzati, un’ampia maglia verde e delle pantofole rosa. Le
mancava solo un cappello da chiesa con un’esca colorata e una
pallina da golf cucite sopra. Aveva con sé una borsa grossa quanto
una valigia. Poteva avere una quarantina d’anni. O forse cinquanta.
Di sicuro aveva l’aria molto stanca.
Tolsi i piedi dalla scrivania.
La donna disse: – C’è solo lei qui?– Sí, signora.– Dov’è il nero?– Leonard o Marvin?
Marvin non lavorava piú lí. Aveva venduto la società a Brett, ma
pensai che forse la donna si riferisse a lui.– Loro sono neri? – chiese lei.– Sí, signora. Costantemente.– Lavorano tutti e due qui?– In realtà solo uno. Ma è un gran lavoratore, proprio come me.– Quale dei due neri ha la faccia incazzata?– Entrambi. Uno è tozzo e a volte porta un bastone, e ha circa
cinque o sei anni piú di me. Non lavora piú qui. L’altro è muscoloso,
ha la mia età e gli piacciono i biscotti alla vaniglia. Proprio come
questi.
Diedi un colpetto alla busta.– Credo di aver visto quello muscoloso.– Ora che ci penso, sono muscolosi entrambi. Ma uno è piú
vecchio e piú pesante, come un orso che è stato addestrato a
portare i vestiti.
Mi fissava intensamente.– Come può vedere, – le dissi, – io non sono nessuno dei due.– Pensavo solo al fatto che non riesco a intuire la sua età. I
bianchi sono difficili da giudicare. Posso avere un biscotto?– Ne prenda due. Le va del caffè?– Ha una tazza pulita?– Ci può scommettere.
Mi spiegò come le piaceva il caffè. Le preparai una tazza. Per lei
niente dolcificante; prese quattro bustine di zucchero, le mischiò con
uno dei nostri cucchiai di plastica, assaggiò, chiese un’altra bustina e
io gliela diedi. Tra un sorso di caffè e l’altro, inzuppò uno dei biscotti
e lo sgranocchiò. Sapeva il fatto suo.– Suppongo non importi chi sia, dei due. L’ho visto salire e poi
riscendere le scale, dunque ho pensato che lavorasse qui, ed
essendo nero volevo parlare con lui.– Anche tra noi bianchi c’è chi sa parlare e indagare molto bene.– Immagino.– Come ha fatto a vederlo?– In che senso?– Il nero, Leonard. Non credo che si sia appostata dentro l’albero
del parcheggio con un binocolo in mano.– Sta facendo il saputello?– Solo un po’.– Abito di fronte, signor detective. Ecco perché sono qui in
pantofole. Mi sono messa quello che avevo sotto mano.– Lo immaginavo.– Balle, – disse lei.– D’accordo, non lo avevo immaginato.– Ho portato i soldi. Non voglio niente gratis.– Non avrei offerto nulla gratis.– Già, – disse. Prese un portamonete dalla sua borsa enorme,
che aveva abbastanza spazio da contenere un universo parallelo, e
vi scavò dentro come se stesse cercando l’oro di re Salomone. Tirò
fuori un fascio di banconote che avrebbe fatto strozzare un
dinosauro e lo schiaffò sulla scrivania, versandoci sopra alcune
monete.
Mi guardò. Allungai la mano e tirai i soldi verso di me, poi li contai.
Erano un bel mucchio, ma la maggior parte delle banconote era di
piccolo taglio. Quaranta da un dollaro, una da cinque, una da venti
con un angolo piegato come l’orecchio di un cane e l’altro masticato,
probabilmente proprio da un cane. In monete c’erano ventotto
centesimi, piú un simpatico mucchietto di lanetta e una caramella
rotonda alla menta, avvolta nella plastica. Si riprese la mentina e la
fece cadere nella borsa. Scommetto che sta ancora rotolando verso
il fondo.
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