Oltre la fragilità – Le scelte per costruire la nuova trama delle relazioni economiche e sociali -Antonio Calabrò

SINTESI DEL LIBRO:
Sono stagioni dolorose, di malattia. Di paura. E di morte. Di un
radicale sconvolgimento delle nostre vite a causa di un virus, SARS
CoV-2, che provoca centinaia di migliaia di vittime e milioni di malati.
E di un brusco arresto delle economie, con conseguenze
drammatiche sul lavoro, i redditi, il benessere. Scopriamo, con
angoscia, la nostra fragilità. Una pandemia demolisce certezze e
abitudini. E nulla tornerà più come prima, anche se, per non
smarrirci, parliamo di «nuova normalità». Il 2020 sarà ricordato come
un anno di «divisione storica», un salto d’epoca, l’inizio di un nuovo
evo ancora senza nome, come dopo la caduta dell’Impero Romano
d’Occidente o la Rivoluzione francese, sostiene con forza suggestiva
Thomas Friedman sul New York Times1. Stiamo vivendo e scrivendo
un’altra Storia, costretti a imparare a scandire un altro tempo, a
immaginare un altro avvenire, più incerto e travagliato. E la
cognizione di questo dolore ci cambia profondamente. In meglio?
Chissà.
«È la prova più dura dalla guerra mondiale», sentenzia Antonio
Gutierres, segretario generale dell’Onu. «La peggior recessione dal
1930», stima il Fondo Monetario Internazionale nel Global Finance
Stability Report di metà aprile 2020, prevedendo un crollo del
prodotto interno lordo mondiale, dal –3 al –6 per cento (durante la
Grande Crisi finanziaria del 2008 la caduta era stata –0,1 per
cento)2. Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea,
uomo di ottimi studi e sapiente azione politica, parla di «una tragedia
umana dalle proporzioni potenzialmente bibliche»3. Uno
sconvolgimento radicale, di lungo periodo: «La minaccia è
gravissima. L’Europa deve muoversi prima che sia troppo tardi»,
ritrovando i valori della solidarietà che ne ispirarono la nascita, ha
sostenuto proprio in uno dei momenti peggiori della crisi, alla fine di
marzo, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella4. È tempo di
travaglio e trasformazione, di smarrimento e di faticoso tentativo
d’intravvedere, comunque, qualcosa di positivo, in questo nostro
«viaggio al termine della notte». E proprio il Quirinale, con i suoi
valori e la sua solida forza istituzionale, è il punto di riferimento
fondamentale cui guardare con fiducia in tempi così duri.
Il mondo che conosciamo, insomma, si è rotto? Per dare spazio,
nonostante tutto, al futuro e sopravvivere a momenti storici così
difficili, vale la pena cercare conforto nei classici. «Dico soltanto che
sulla terra ci sono flagelli e vittime e che, per quanto possibile,
bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello.» Sono parole di
Albert Camus, tratte dalle pagine de La peste. Il libro è aperto,
adesso, su molte delle nostre scrivanie, tirato giù dagli scaffali dove
stava a prendere polvere, accanto a Lo straniero. E si accompagna,
spesso, a L’amore al tempo del colera di Gabriel Garcia Marquez5 e
soprattutto a una copia de I Promessi Sposi, forse anche quella delle
edizioni scolastiche che abbiamo letto, annotato e, in tanti,
profondamente amato.
Nella lunga storia di noi umani, abbiamo sempre dovuto fare i
conti con la peste, malattia reale ma anche rappresentazione di un
più profondo male interiore, personale, sociale: la colpa di Edipo che
scatena la peste a Tebe; la peste ad Atene nell’estate del 430 a.C.
raccontata da Tucidide («Un tale contagio e una tale strage quali
non erano avvenuti in nessun luogo a memoria d’uomo») e da
Lucrezio come effetto dell’alterazione della Natura; le epidemie tra il
II e il VI secolo che portano al collasso l’Impero romano6; la peste
del Trecento che fa da sfondo al Decameron di Boccaccio (la
drammatica fine del Medio Evo e l’avvio verso lo splendore
dell’Umanesimo) e poi la peste del Seicento, che ha un peso
fondamentale nelle pagine di Manzoni. E le pandemie tra Ottocento
e Novecento, sino al flagello dell’influenza detta «spagnola» che fa
cinquanta milioni di vittime, molte di più della prima guerra mondiale
da poco conclusa7 e ispira pagine drammatiche a Virginia Woolf8 e a
Thomas Stearns Eliot per La terra desolata9. Quella desolazione
ferisce ancora, nei nostri cuori.
Ne siamo usciti, da pestilenze e flagelli. Contando e piangendo i
morti. Trovando nella scienza gli strumenti, sempre più affinati nel
corso del tempo, per guarire dalle malattie e mettere a punto metodi
e strumenti per non subirle più. E recuperando nelle comunità
quell’insieme di relazioni, quel «capitale sociale» che consente di
progettare e costruire un migliore futuro.
Oggi prendiamo atto della nostra fragilità, personale e sociale.
Abbiamo passato anni a rincorrere ogni novità, ubriachi di passione
tecnologica perfino nei suoi aspetti più frivoli. E ci ritroviamo invece
costretti nella dimensione antica del contagio e della quarantena,
dell’epidemia e del diffuso pericolo di morte, per colpa di un virus
che toglie il respiro. La modernità hi tech rivela parecchi dei suoi
limiti e solo con radicali riconsiderazioni potrà diventare salvezza.
Restano le condizioni ancestrali del rapporto con la solitudine, la
paura, la morte.
Ecco perché vale la pena tornare alla compagnia dei buoni libri,
in questi giorni di fatica e dolore. Provare a trovare consolazione. E
soprattutto sostegno a un’idea precisa: decidere che cosa fare per
rifiutarsi di stare dalla parte del flagello, appunto.
La comunità e la capacità di prendersi cura
Che cosa vuol dire? Si può cominciare con il ragionare su due parole
chiave. Comunità. E cura. La parola viene dalla radice indoeuropea
ku. È simile a kewh, che vuol dire osservare e risuona anche in kavi,
il saggio. Se ne ritrovano tracce nel greco antico xοέω, che indica il
sapere, il conoscere. I latini, più tardi, insisteranno sul cor, il cuore.
Conoscenza ed emozioni, in sintesi. L’intelligenza del cuore,
diremmo oggi. Prendersi cura, dunque, è la capacità di farsi carico di
un destino altrui, di conoscere il prossimo e decidere di condividerne
la fatica e il dolore, il dramma e le speranze. Condividere. Anche qui
vale la pena continuare a giocare con le parole e le loro radici.
Condividere ha la radice cum. Insieme, cioè.
È la stessa origine di «comunità». Cum e munus. C’è un dono
che suggella lo stare insieme. E dunque «il significato della comunità
non starà tanto nell’appartenenza identitaria, nella koinè e cioè la
cultura, gli usi e il linguaggio comuni, quanto piuttosto nella
reciprocità dell’obbligo donativo». E la relazione comunitaria è un
«dare-darsi»10.
Comunità
e
comunione.
Cooperazione,
collaborazione e, perché no?, anche competizione: cum e petĕre,
andare insieme verso un obiettivo comune.
L’orizzonte che la pandemia ci fa riscoprire è quello della
«comunità di cura», secondo la sintesi di Aldo Bonomi11. La cura, la
conoscenza, la condivisione. La rivalutazione del nostro essere
«animale sociale». L’idea forte che supera l’individualismo più
egoista e allarga i confini verso l’universo delle relazioni. Verso
l’altro, nel cui sguardo definisco la mia stessa identità. Verso il
prossimo. Verso tutti coloro cui siamo simili nell’intreccio delle parole
e degli affetti. Prendersi cura. Avere cura. Imparare ancora una volta
a
tenere insieme la persona e la comunità. Passare dalla
dimensione ristretta, e pur comunque essenziale, dell’io a quella
ampia di persona, rileggendo le pagine di Emmanuel Mounier: «Ogni
persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel
posto che essa occupa nell’universo delle persone. Tale è la
maestosa grandezza della persona che le conferisce la dignità di un
universo. E tuttavia emerge la sua piccolezza, in quanto ogni
persona è equivalente in questa dignità, e le persone sono più
numerose delle stelle»12. E ricordando pure la ricchezza delle
relazioni tra pensiero liberale e valori umani, diritti e doveri, impegno
politico e responsabilità, a partire dalla lezione di Piero Gobetti.
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