La donna che cancellava i ricordi – Brian Freeman

SINTESI DEL LIBRO:
File di luci rosse si accesero come
lampadine natalizie, lungo le cinque
corsie in direzione ovest del ponte
tra San Francisco e Oakland Bay.
Erano gli stop di decine di auto.
Sessanta metri sopra le gelide acque
di Yerba Buena Island, clacson, botti
e frenate di un tamponamento a
catena trasformarono la strada in un
parcheggio. Centinaia di pendolari
stanchi capirono che non sarebbero
arrivati presto da nessuna parte.
Spensero i motori, presero in mano
gli smartphone e si disposero
all’attesa.
Lucy Hagen, intrappolata nella
corsia più a destra, andò in panico.
Pugni stretti, unghie premute nei
palmi. «Oh, merda, merda, merda»
mormorò, chiudendo gli occhi.
«Non quassù.»
La sua amica Brynn, al volante
della Camaro cabrio con la capote
abbassata, le diede un colpetto su
una gamba. «Dai, va tutto bene.»
Ma non andava bene per niente.
Lucy odiava i ponti. Se avesse
potuto evitare di attraversarne uno
per il resto della sua vita, lo avrebbe
fatto con gioia. Ma viveva a San
Francisco: acqua dappertutto e per
andare da qualsiasi parte c’era un
ponte da oltrepassare. Il Richmond
Bridge, il Bay Bridge, il San Mateo
Bridge, il Dumbarton Bridge. Il
Golden Gate. Quando poteva
prendeva il BART, il treno urbano
che svolgeva servizio di trasporto
celere nell’area della baia, ma
spesso non aveva altra scelta che
avventurarsi sulle alte campate di
qualche ponte, per arrivare dove era
diretta. I ponti erano i suoi nemici.
«Puoi provare a cambiare
corsia?» chiese a Brynn.
«Che differenza vuoi che
faccia?» sospirò l’amica.
Erano imbottigliate. Le auto
intorno riempivano ogni spazio.
Brynn spense il motore della
Camaro, ma lasciò accesa la radio,
battendo i pollici sul volante al ritmo
di Do It Again, cantata dagli Steely
Dan. La situazione non la
preoccupava affatto. Lucy, invece,
stava vivendo il suo peggiore
incubo, bloccata su un ponte a pochi
centimetri dal parapetto e da una
terrificante caduta in acqua.
Erano le undici di sera. Refoli di
nebbia ondeggiavano come fantasmi
nel buio, tra i cavi del ponte. Dalla
gigantesca
bretella
in
alto,
punteggiata di luci bianche, si
dipartivano cavi lunghissimi verso la
torre principale. Fischiava un vento
freddo e feroce. Il ponte ondeggiava
leggermente
sotto
l’auto,
ricordandole costantemente che era
sospesa in aria, intrappolata. Una
patina di sudore freddo le si formò
sulla pelle ed ebbe uno spasmo
involontario, come una scossa
elettrica.
«Quelli
della
manutenzione
devono arrampicarsi lassù per
sostituire le lampadine» disse Brynn,
indicando il cavo di sospensione che
saliva. «Quello sì che mi fa paura.
Non mi piacerebbe fare un lavoro
del genere.»
«Piantala, Brynn.»
La sua amica ridacchiò. «Questo
sarebbe proprio un brutto momento
per il Big One» disse, riferendosi al
grande terremoto che prima o poi
avrebbe colpito la California.
«Ti ho detto di smetterla. Per
favore. Non è divertente.»
«Scusami»
disse
Brynn,
stringendole una mano. «Per te deve
essere davvero brutto, eh?»
«Orribile.»
«Dovresti parlare con la mia
psichiatra.»
«Sarebbe inutile. Tutto è inutile.»
«Guarda che lei è molto brava.
Mi ha aiutato, con il mio problema.
Di cosa hai paura, esattamente?
Credi che il ponte crollerà, o
qualcosa del genere?»
«No» disse Lucy.
«Allora cosa?»
«Brynn, non voglio parlarne, va
bene?»
L’amica alzò una mano in segno
di resa. «Va bene, rilassati. Ne
usciremo presto. Alzo il volume
della musica.»
Dalla radio partì a tutto volume
Bennie and the Jets, di Elton John,
che coprì almeno in parte il ruggito
del vento.
Lucy sapeva benissimo che la
maggior parte delle persone non
erano turbate dai ponti. Erano in
tanti, imprigionati su quella striscia
di acciaio e cemento in alto sopra la
baia, e non ci facevano neanche
caso. Guardò le altre auto. Dentro
una Lexus accanto a loro, un uomo
latrava in un telefono cellulare; il
ritardo lo irritava, ma niente di più.
Molti scrivevano messaggi, i pollici
volavano sulle tastiere. In un
furgoncino qualcuno guardava un
film sul dvd player del cruscotto: era
Inside Out, lo riconobbe subito.
Era
solo
un
normale
del
traffico
in
rallentamento
California.
Poi Lucy sentì che la sua bocca si
seccava. Allungando il collo per
guardare dietro, vide una Cutlass
nera dai vetri oscurati, a tre corsie di
distanza. Era sporca e ammaccata.
L’aveva notata solo perché proprio
nel momento in cui si era voltata, il
finestrino di quell’auto si era
abbassato a metà. La notte era buia e
le luci dentro l’auto erano spente.
Eppure, per un attimo, riuscì a
scorgere un viso dietro quel
finestrino.
No, non un viso. Una maschera.
Bianca, con un sorriso enorme e
grottesco, incorniciato da labbra
rosso ciliegia. Gli occhi erano
sfaccettati come quelli di una mosca.
Il mento formava una V acuta e la
fronte bianca aveva ossa esagerate
che si allungavano fino a metà del
cranio. Una parrucca di capelli neri
pendeva da entrambi i lati della
maschera. Il viso mascherato le
sorrise.
«Merda!» esclamò Lucy.
Brynn le lanciò un’occhiata.
«Cosa c’è?»
«Quell’uomo! Guarda!»
Brynn si voltò a guardare. «Non
vedo niente.»
Il finestrino della Cutlass adesso
era chiuso, e all’interno non si
vedeva nulla. Lucy si chiese se fosse
mai stato aperto. Forse aveva le
allucinazioni. Il terrore del ponte la
spingeva a immaginare cose irreali.
«Cos’hai visto?» chiese Brynn.
«Nulla. Scusami.»
«Sei ancora spaventata?»
«Sì.»
«C’è solo da aspettare un po’»
disse Brynn. «Non succederà nulla
di male.»
«Lo so, ma ho paura di andare
fuori di testa.»
«Chiudi gli occhi. Respira
lentamente. Inspira e butta fuori. La
mia psichiatra dice che è una tecnica
calmante.»
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