Maledetti toscani – Curzio Malaparte

SINTESI DEL LIBRO:
E maggior fortuna sarebbe, se in Italia ci fossero più toscani e meno italiani.
Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto
più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese,
tedesco, spagnolo, inglese.
E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o
stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per
qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da
quel che gli altri hanno detto.
O forse perché, quando si tratta d'esser migliori o peggiori degli altri, ci basta
di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza
gloria, esser migliore o peggiore di un altro.
Nessuno ci vuol bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla).
E se è vero che nessuno ci disprezza (non essendo ancora nato, e forse non
nascerà mai, l'uomo che possa disprezzare i toscani), è pur vero che tutti ci
hanno in sospetto.
Forse perché non si sentono compagni a noi (compagno, in lingua toscana,
vuol dire eguale).
O forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri
ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il
riso gela sulle loro labbra.
Di fronte a un toscano, tutti si sentono a disagio.
Un brivido scende nelle loro ossa, freddo e sottile come un ago.
Tutti si guardano intorno inquieti e sospettosi.
Un toscano apre la porta ed entra? Un silenzio impacciato lo accoglie, una
muta inquietudine s'insinua, là dove prima regnava l'allegria e la confidenza.
Basta l'apparizione di un toscano, perché una festa, un ballo, un pranzo
nuziale si mutino in una triste, tacita, fredda cerimonia.
Un funerale al quale prenda parte un toscano diventa un rito ironico: i fiori si
mettono a puzzare, le lacrime seccano sulle gote, le gramaglie cambian
colore, perfino il cordoglio dei parenti del morto sa di beffa.
Basta che fra il pubblico ci sia un toscano col suo risolino in bocca, e subito
l'oratore si turba, la parola gli si sgonfia sulle labbra, il gesto gli si ghiaccia a
mezz'aria.
Un generale parla ai suoi soldati di gloria, di bella morte; del «bene
inseparabile del Re e della Patria»? Se fra i soldati, laggiù nell'ultima fila, c'è
un toscano che lo guarda, subito il generale s'imbroglia, rinfodera la sciabola,
arrotola la bandiera, e se ne va. (E qui va detto che gli italiani, le battaglie, le
vincono soltanto grazie al risolino ironico di quel soldato toscano laggiù,
nell'ultima fila.
Quando non c'è quel risolino a mettere a posto i generali, accade quel che
accade.
E quanti guai si sarebbero risparmiati se Mussolini, invece di parlare al
balcone di Palazzo Venezia, avesse parlato dal terrazzino di Palazzo
Vecchio!)
Il sospetto e l'inimicizia degli altri popoli, italiani e stranieri, ci fanno senza
dubbio onore, essendo segni manifesti di rispetto e di stima.
In una stagione, com'è questa, d'ipocrisia, di viltà, e di compromessi d'ogni
specie, fa sempre onore, a un uomo o a un popolo, esser temuto e avversato.
Vi sono uomini e popoli che soffrono di non essere amati: son quelli che han
natura femminile.
Ma una nazione forte, spregiudicata, ardita, qual è la nazione toscana, a cui
nessuno ha mai voluto bene, e che da secoli è abituata al sospetto e all'invidia
altrui, perché mai dovrebbe soffrirne? Tutti siamo, noi toscani, fuorché
femmine.
E che gli altri non ci vogliano bene, diffidino di noi, abbiano gelosia e timore
della nostra particolare intelligenza, del nostro modo di guardare il prossimo
e riderne a bocca fredda (quando un altro, che non fosse toscano, ne
piangerebbe), che tutti, insomma, siano sospettosi di quel che essi
impropriamente chiamano il nostro cinismo, la nostra crudeltà, la nostra
garbata arroganza, ci fa quasi piacere.
Anzi, per essere onesto, dirò che ne godiamo.
Ma quello di cui più godiamo è vedere come tutti, italiani e stranieri, si
meraviglino del disprezzo col quale noi li ripaghiamo del sospetto e
dell'inimicizia loro.
Che non è un disprezzo nato a caso, né da ripicco o vanità; né da orgoglio:
ma un disprezzo sentito, e risentito, allegro, ragionatissimo, e antico.
E basta guardare un toscano come cammina, per capire di che stoffa sia fatto
il suo disprezzo.
Guardate come un toscano cammina.
Cammina a testa ritta, col petto in fuori e le mele strette.
Tira diritto guardando fisso davanti a sé, con quel risolino sulle labbra che
par dipinto, tanto par vero.
Si direbbe che non guarda e non vede: come uomo che sta ai fatti suoi, e di
quelli degli altri non s'impiccia.
Eppure, così camminando a testa ritta, gli occhi fissi davanti a sé, guarda e
vede tutto, né mai gli capita che guardi senza vedere, perché il toscano vede
anche senza guardare.
Non sorride per grata, amabile disposizione dell'animo, né per orgogliosa
compassione: ma per malizia, e dirò, anzi, per spregio.
L'elemento fondamentale del suo carattere è, infatti, l'esser spregioso: il che
nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s'intende
degli altri uomini.
In se stesso il toscano ha fiducia, pur senza orgoglio, ma negli uomini, nella
pianta uomo, no.
In fondo, credo che disprezzi il genere umano, tutti gli esseri umani, maschi e
femmine.
E non per la loro cattiveria (al toscano non fan paura i cattivi), ma per la loro
stupidità.
Degli stupidi il toscano ha ribrezzo, perché non si sa mai che cosa possa venir
fuori da uno stupido.
Guarda, dico, come il toscano cammina: e ti avvedrai che cammina come se
stesse sempre sulle sue, come uomo che sa, per antica esperienza, che la cosa
più aborrita al mondo è l'intelligenza, e la più insidiata.
Che tutti gli italiani siano intelligenti, ma che i toscani siano di gran lunga più
intelligenti di tutti gli altri italiani, è cosa che tutti sanno, ma che pochi
vogliono ammettere.
Non so se per gelosia, o per ignoranza di quel che sia veramente
l'intelligenza: la quale non è furbizia, come si crede comunemente in Italia,
ma un modo di abbracciar con la mente le cose, di comprenderle, cioè, e di
penetrarle, mentre la furbizia è soltanto quello che il batter delle ciglia è in
confronto con lo sguardo.
E chi negherà che noi toscani sappiamo entrar con gli occhi della mente in
fondo alle cose, e guardar dentro? Che siamo come quegli insetti che
prendono il polline dai fiori maschi e lo portano ai fiori femmine? Che noi
portiamo l'intelligenza, come un polline, alle pietre, e ne facciamo nascere
chiese e palazzi, torri maschi e piazze femmine? Chi negherà che
l'intelligenza in Toscana ci sta di casa, e che anche gli scemi, che in casa
d'altri son soltanto scemi, da noi sono intelligenti?
Questo fatto d'essere più intelligenti degli altri, nessuno ce lo perdona, in
Italia, anzi ci vien rinfacciato come un difetto.
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