La bellezza dell’asino – Pia Pera

SINTESI DEL LIBRO:
Sabato. Messaggio di Sofia sulla segreteria telefonica: «Sono a
Milano, se puoi venire per un drink, chiamami. Baci». Esito, devo
ancora sbobinare, poi vado. La trovo con una cugina, Rimma, che
resta nello studio a tradurre una commedia, roba di un inglese, Nigel
Coward, mi pare. Ogni tanto viene a parlare con noi, poi si riprecipita
sulla macchina da scrivere. Nel mezzo di questo andirivieni, Sofia e
io ci sediamo sul divano, a bere whisky on the rocks. Non sappiamo
da dove cominciare, dopo due anni. Sofia sorride, di quel sorriso
malinconico, primo Novecento, come dice la mamma. Mi prende la
mano e mi chiede se sono depresso. Non so cosa risponderle. Ho
soltanto voglia di contemplarla e di essere lasciato in pace. Allora le
chiedo di parlarmi di sua cugina, da dove sbuca, perché. Questa
Rimma è figlia d’una zia comunista di Sofia che è andata a vivere a
Mosca negli anni Cinquanta; è una storia movimentata e io mi
distraggo. Dopo un po’ Rimma smette di battere a macchina nella
stanza accanto, e viene da noi per leggerci dei punti che non sa
bene come fare. Mentre legge mi colpisce il fatto che non riesco a
darle un’età precisa. Sembra giovane, perlomeno ha un che di
bambinesco nei modi e nell’aspetto – un po’ troppo trascurato. Per
niente bella, è piccolina, non sta ferma un momento, ha i capelli ricci
e le guance paffute, grandi, sempre allargate in un sorriso, ride con
uno scroscio volgare, fastidioso. Un contrasto totale con Sofia,
eretta, sottile, tutta scavata, con gli zigomi scolpiti a sbalzo – la
mamma una volta ha detto che dà l’impressione di trasparire da una
veletta di pizzo nero. Non sembrerebbero nemmeno cugine, ma si
vede che Rimma ha preso dal padre ebreo. Anzi, ha una faccia
talmente ebraica, che Sofia si diverte a chiamarla Rabbi Rimma.
Qualcosa di accattivante Rimma ce l’ha, non saprei bene cosa,
forse semplicemente mi incuriosisce. Sta per entrare nella casa
nuova, adesso ha tutti i suoi bauli in una pensione piena di immigrati
meridionali, calabresi, pugliesi, perfino tunisini. Il suo amico regista
le ha trovato un appartamento in affitto non lontano dal centro.
Niente male, per una che non sa ancora rinvenirsi fra piazza del
Duomo e piazza San Babila. Mi sono offerto di aiutarla a traslocare.
Domenica. Pessima idea, offrirsi di aiutare. Ieri mattina, alle dieci, mi
ha svegliato la telefonata di Rimma. Avevo una gran voglia di
mandarla al diavolo: la notte prima avevo fatto tardissimo in studio.
La mattinata è partita tutta nel trasloco. Una cosa inaudita: mai viste
tante valigie in vita mia. A suo modo è anche stato divertente.
Rimma sembrava perfettamente a suo agio. Mi ha detto tutta fiera di
avere fatto sette traslochi in un anno: il primo, dalla casa di
Leningrado da cui era stata cacciata dopo la richiesta del visto di
emigrazione, in casa di amici che l’hanno ospitata, poi a Vienna,
dove ha dovuto sostare con altri ebrei prima di avere il visto
d’ingresso in Italia – e due – poi a Ostia dove si è fermata in un
appartamento pieno zeppo di profughi – e tre – finché Sofia non le
ha trovato una sistemazione a Roma in casa di una sua amica – e
quattro. In casa dell’amica, Rimma non è riuscita a restare più di un
mese: aveva le sue abitudini sovietiche, tipo lasciare le scarpe
ammucchiate nell’ingresso, accumulare i piatti sporchi nel lavandino,
dar da mangiare ai gatti randagi, e questo alla fine ha esasperato la
padrona di casa. Il litigio serio, comunque, è avvenuto quando
Rimma si è sentita dire che gli ebrei del ghetto erano piccoli e
sporchi, e che anche nella pasticceria del Portico d’Ottavia i dolci di
ricotta e visciole erano buoni, però faceva un po’ senso vedere
quegli ebreuzzi – non per essere antisemiti, ma… Rabbi Rimma a
sentir questo si è tutta inalberata, non per niente aveva lottato una
vita contro l’antisemitismo in Russia, tenendo corsi clandestini di
yiddish – questo me lo ha detto tutta fiera, della serie «ammirate
ammirate». Quanto all’amica di Sofia, è cascata dalle nuvole, perché
non sapeva che la cugina russa della sua bionda amica Sofia
avesse sangue ebraico. Rimma ha fatto le valigie e se n’è andata,
trasferendosi in occasione del quinto trasloco in un albergo vicino
alla stazione, dove uno studente greco ha cercato di violentarla. A
questo punto è intervenuta di nuovo Sofia, che nel frattempo aveva
abbandonato il suo appartamento di Roma e si era trasferita a
Milano. Il sesto trasloco è stato dunque quello nella casa romana di
Sofia, a due passi dal Pantheon. Poi Sofia ha venduto il suo
appartamento, e ha convinto Rimma a venire a Milano. Il settimo
trasloco ha visto Rimma trascinare le sue valigie alla pensione
Donizetti, a due passi da casa di Sofia, e ora… Quindi, sette
traslochi in un anno, più questo fa otto. Roba da pazzi.
Rabbi Rimma è dotata di un ottimismo quasi irritante. Quando mi
sono offerto di aiutarla a traslocare, ha subito accettato, senza tanti
complimenti, come se fosse una cosa da tutti i giorni, a Milano,
trovare uno che si rovina la mattinata solo per i tuoi comodi. Per tutto
il tempo ha cicalato delle sue storie, che mi hanno fatto venire un
gran mal di testa. Quanto alla mia modesta persona – nemmeno una
domanda. La mia funzione, a parte il servizio trasporti, era
evidentemente di essere istruito sulle vicende dell’ebraismo russo.
Un sollievo, alla fine, quando mi ha detto che il pomeriggio avrebbe
sistemato da sola l’appartamento. Le ho detto di venire stasera a
cena insieme a Sofia.
Lunedì. Rimma ieri sera si è presentata da sola. È entrata tutta
trafelata, urlandomi addosso che era arrivata per miracolo. L’ho
guardata come se fosse pazza, tanto più che non riuscivo a
spiegarmi perché me la trovavo davanti senza Sofia. Al mio sguardo
un po’ si è calmata, anzi, si è confusa, un’ombra di smarrimento le
ha come afflosciato le guance. In quel momento ho capito che s’era
ficcata in testa di cenare da sola con me. Tamponare. Le ho chiesto
di Sofia, e lei non è nemmeno stata capace di nascondere la
delusione. Chiaro che voleva raccontarmi cosa le era appena
successo – un’altra delle sue complicate avventure, palle.
Bruscamente, ha risposto che non era ancora riuscita a parlare con
Sofia, poi ha cercato di spiegarmi perché non si erano ancora
sentite, e con una precipitazione ridicola s’è messa al telefono. La
conversazione è stata lunga e impacciata, l’ho sentita dalla cucina,
mentre finivo di girare il risotto allo zafferano. Sofia deve aver
interposto qualche difficoltà, perché Rimma se ne stava lì a insistere,
a dire il vero con poca convinzione nella voce: Ma dai, vieni, ma sì,
certo, devi esserci anche tu, ma no, ma no, cosa dici… e giù di lì. Ah
ah, penso io, tutto chiaro. Torna in cucina con la coda fra le gambe.
In quel momento mi fa un po’ pena, il viso da rosso s’è fatto giallo,
incartapecorito. Si vede che, come tutte le donne prive di fascino,
riesce a sembrare gradevole solo quando tiene la faccia in
movimento. Allora le chiedo cosa voleva dire con questo essere
riuscita a venire per miracolo, al che – effetto previsto – si ravviva un
poco, o meglio, cerca di ravvivarsi, di ritrovare l’entusiasmo con cui
era arrivata, la foga della storia che voleva raccontarmi. Mi guarda,
cerca di ispirarsi, riesce solo a balbettare un incolore «Ecco, sono
rimasta chiusa dentro». «Chiusa dentro?» la guardo io, «e come hai
fatto?» Assumo un tono paterno, per confortarla. Mi racconta di non
essere riuscita ad aprire la porta di casa, di avere disperato di
riuscire a venire. Si accalora, per farmi capire quanto ci teneva a
stare con me. «Non preoccuparti, l’ho capito e come» mi dico. Me la
immagino intrappolata in casa, così come me la vedo davanti: la sua
idea di seduzione è un vestito rosa, di quelli che usavano anni fa
(deve essere uno dei vestiti usati di Sofia, tanto più che è troppo
lungo per Rimma, le arriva fino ai tacchi, ed è anche troppo stretto:
le tira alle cosce, sulle tette è riuscita a malapena ad abbottonare).
Sul vestito rosa si è messa uno dei suoi scialli russi, a fiori. Lo scialle
la infagotta ancora di più. Sembra proprio una di quelle matrioske dei
negozi di souvenir sovietici, a fiorami, con le guance rubizze… come
se non bastasse, s’è tirata su i capelli a cipollina, come la chiesa di
San Basilio. Rido all’idea, lei si sente incoraggiata, e si infervora a
raccontarmi di come questa matrioskina laccata di rosa si dispera
rinchiusa in casa, di come si mette alla finestra e urla: «Aita, aita!»
gesticolando come un burattino. Già, ha imparato l’italiano sui libretti
d’opera. «Aita, salvatemi!» Al che una coppietta che è in strada a
litigare la guarda perplessa, sembra un po’ una scena da film a luci
rosse, la tipa che si mette alla finestra per farsi fare dal primo
maschione di passaggio… Comunque i due si convincono
dell’inverosimile situazione di un’ebrea sovietica che dopo essere
riuscita a passare la cortina di ferro non riesce a passare la porta di
casa sua in corso di Porta Ticinese. Salgono e le aprono da fuori,
ringraziamenti da una parte, riso incredulo dall’altra. Ed ecco Rimma
Goldfarb, finalmente libera, che assapora l’aria serotina e passetto
passetto sui tacchi alti che sembrano quasi a spillo messi a
confronto coi polpaccioni da mangiatrice di patate, si affretta a
raggiungere l’amato bene per una romantica cena…
Be’, lei non l’ha proprio raccontata così… ma si capiva… L’amena
storiella, con Rimma protagonista, naturalmente, è stata ripetuta
all’arrivo di Sofia, che ha riso molto. Le osservavo, insieme: cercavo
di capire cosa potesse unire quell’essere in agitazione permanente a
Sofia, malinconica, rarefatta, ineffabile, poi ho capito, è abbastanza
ridicola da farla ridere.
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