Enciclopedia della donna – Aggiornamento – Valeria Parrella

SINTESI DEL LIBRO:
Tempo fa si formarono delle ragnatele agli angoli dei muri del
soggiorno. Chiesi al filippino di occuparsene, e lui disse che serviva
uno strumento apposito, cercò di descrivermelo alla men peggio e se
ne andò. Io, che non avevo nessunissima voglia di andar per
mercati, consultai l’indice dell’Enciclopedia, alla voce “ramazze”, e
quello che mi si parò innanzi all’aprire la pagina fu un meticoloso
inventario di scope e scopette, tutte fotografate stese affinché anche
al solo sguardo della massaia ne fosse chiaro l’utilizzo. Fu lo stesso
colpo d’occhio che si aveva sul tavolo di casa di Chiara, il giorno del
suo cinquantesimo compleanno. Allorquando la rappresentante de
La valigia rossa, evoluzione socio-naturale delle rappresentanti
dell’Avon, sciorinò davanti a noi convitate i giocattolini che aveva
portato. Disegnati e pensati per il piacere femminile. Maschi: non
contemplati. Alba soppesò una papera di plastica, che vibrava e a
cui si allungava il collo; con una certa alterigia lo fece. Chiara si
dedicò a certe creme clitoridee al peperoncino, anzi ne chiese un
campione, come quelli dei profumi che trovi azzeccati alle pagine
delle riviste, e Bianca, che è la piú creativa, prese una teoria di
palline di plastica dura di diametro crescente, che terminavano in un
anello e disse: «Voglio vedere se il mio uomo se lo fa mettere nel
culo». Noi ci preoccupammo solo della solidità di fattura
dell’aggeggio e passammo avanti. Erano i venticinque anni dalla
morte di Freddie Mercury, e Bianca e Alba improvvisarono un duetto
– che sarebbe presto rimbalzato nell’immaginario collettivo –
impugnando dei vibratori rotanti come microfoni. Hanno delle
bellissime voci.
La rappresentante se ne andò soddisfattissima sfregandosi le
mani, e noi, non convinte del tutto, restammo un poco a parlare della
questione: se sia davvero il ferro a fare il mastro, e poi ci
distraemmo, perché Chiara stappò la sua bottiglia migliore. Alba, che
aveva speso un sacco di soldi, aveva ricevuto in omaggio un ovetto
di gomma. Si immagini un ovetto vuoto dentro, con un’estremità
bucata, e le pareti interne rastremate. Disse: «È per fare prima le
seghe, capisci? Quando ti rompi, ti metti là, lo riempi di lubrificante,
ciú ciú ciú ciú e gliela fai». È una sentimentale. Le voglio bene,
resterà sempre una delle mie migliori amiche ma su questa cosa qui
non le darò mai ragione. Il sesso è divertimento, tutti gli altri
sentimenti (ossessione, masochismo, sadismo, amore, sfida) vanno
ad alimentare il divertimento, altrimenti quello si impoverisce e
diventa uno solo dei suoi componenti: ossessione, sadismo,
masochismo, amore, sfida. E allora è un’altra cosa e non stiamo
affrontando la materia per quella che è. In termini che piacerebbero
ai miei due figli digitadolescenti: il sesso lo attivo e lo disattivo se
voglio o non voglio divertirmi, oppure accetto che si insinui in me
divertendomi, che mi raggiunga. Se è il momento si fa, e per fortuna
dell’umanità: è spesso il momento. Ma se non è il momento è meglio
passare ad altro, e per fortuna dell’umanità: il mondo è pieno di altro.
Voglio dire che io faccio una sega se sto di genio, infatti preferisco
fare queste cosette esterne quando sono ancora eccitata: se sono
venuta, poi già lo so che mi annoio. E se mi annoio non lo faccio,
oppure devo essere proprio proprio innamorata per farlo con
altruismo, il che pure può essere. Ma parliamoci chiaro:
statisticamente, quante volte in una vita si scopa con amore? (per
amore è una preposizione che manco voglio pensare). Uno, due
uomini, tre in una vita? Con ognuno diciamo un giorno sí e uno no
per un paio d’anni? Mille volte. Non è male. Ma le altre mille e mille
cento e deinde mille è meglio giocare con il pisello finché è un gioco
pure per te sennò poi finisci con l’ovetto, cioè con il pensiero
altruistico che lui si meriti di venire e che questo merito glielo devi
assegnare tu. Che noia. Ma la mia amica è una sentimentale, io
invece no.
Io negli anni ho appreso una certa cavalleria, insomma quella
specie di regola non scritta per cui se due se ne vanno a letto
assieme si considera conclusa la sessione quando sono venuti tutti
e due. D’accordo. Però manco è possibile lasciarsi incastrare dal
bon ton. A me una volta è successo, solo una volta, quindi non mi
considero maleducata, ma una volta sí: mi è capitato di non aver
gestito bene risorse e tempi, ed essermi trovata pure io nella
spiacevole condizione di 1) essere venuta e voler solo dormire; 2)
stare con uno che voleva venire; 3) a me di lui non me ne fotteva
nulla. Mi addormento. Lui forse aspetta, non so, quando mi sveglio si
riavvicina ma io a quel punto mi scocciavo troppo. Allora glielo dico,
guardandolo fisso fisso negli occhi cosí che non pensasse che
scherzavo. Dico: «Mi scoccio». Lui fa la faccia come a dire questa è
matta. Mi ridistendo felice. Allora lo dice proprio: «Ma sei matta?»
Era un paesaggista. Quando lo dice penso che è un ingenuo. Penso
che è uno che non sa come ottenere ciò che vuole: se non lo stavo
aiutando prima, come poteva immaginare che lo avrei fatto dopo
un’aggressione verbale cosí? E allora voleva la polemica o
l’orgasmo? Era davvero confuso mentalmente, a questo non gli avrei
commissionato manco l’impianto a verde del mio terrazzo. «Fatti, –
dico, – se ti vuoi fare fatti, mi puoi guardare, te ne puoi andare in
bagno, se vuoi ti carico un porno». Mi ha chiamato puttana. Che
tenerezza, non ho manco risposto: gli ho indicato il numero di
un’efficientissima radiotaxi che tengo sempre appeso dietro la porta.
È che la gente non sa piú cosa sta dicendo: una prostituta l’avrebbe
fatto venire e poi si sarebbe fatta pagare, esattamente il contrario di
me, che non l’ho fatto venire, per nulla. E comunque devi avere la
testa intasata da anni di azione cattolica per pensare di offendere
una donna dicendole “puttana”. Devi credere, cioè, che anche quella
donna abbia anni di azione cattolica in testa. E invece la donna in
questione in testa aveva Woodstock da quando ne scoprí
l’esistenza. E soffriva, da ragazza, soffriva assai a vedere tutti questi
corpi girare per il mondo e sapere di poterne possedere solo una
infinitesima parte. E di dover anche inscenare penosi minuetti per
portarsene a letto qualcuno. Fingere seduzioni, sguardi, tenzoni con
le amiche. E quando a diciassette anni beccai quello con il viso di
angelo e il cazzo enorme che era ancora vergine? Mi stavo
sentendo male, in macchina, quando compresi l’orrenda verità: che
non l’avrebbe fatto lí per lí. Gli preparai la trappola che voleva e
pazienza. Però insomma, sentii come la liberazione l’ingresso
all’università e il primo incontro con un uomo adulto: l’assistente
della cattedra di Storia dell’Architettura (la cattedra di cui, secoli
dopo, come una profezia, sarei diventata ordinaria), uno che
scopava tanto e variamente e quindi era all’altezza del mio
multiforme ingegno. Mi si spalancò il cuore, sentii che ero arrivata in
quell’età e in quella porzione di mondo in cui ero libera e
ingiudicabile, un luogo dove pure gli altri avevano in testa il
Ferragosto del 1969.
Era solo il principio della mia carriera universitaria, i primi corsi, i
primi esami, ma stavo cominciando finalmente con il piede giusto. E
pure lí, iniziai a capire, su un secondo binario dell’apprendimento,
che gli universitari sono deboli. Perché io, tutta innamorata per le
sessioni che mi facevo con l’assistente, e già brava con la china, gli
feci un ritratto steso a letto di profilo e, intorno al letto, come una
fioritura primaverile, disegnai cazzi e fiche. Lui se ne adontò, disse:
«Ma mi vedi cosí? E la ricerca? E la materia? I libri dove sono? Mi
vedi solo circondato di cazzi e fiche?» Sí. Lo vedevo solo cosí. Li
vedo solo cosí. Se devo bearmi della loro mente sopraffina, leggo
Platone.
Cartesio
Affinché una vita sessuale a livelli universitari si concluda con una
laurea ben fatta ci sono due strade: quella sperimentale e quella
compilativa. Quando le allieve vengono a chiedermi la tesi e non
hanno un’idea chiara di quello a cui si vogliono dedicare io le faccio
parlare un poco, e capisco subito se hanno un animo disposto a
sorprendersi, oppure vogliono viaggiare sul sicuro, dipende solo dal
carattere. Alcune hanno bisogno di sapere tutto tutto dell’argomento,
vogliono essere quelle che ne sanno di piú in assoluto, quelle che ne
sanno piú anche della commissione. Quelle che si tranquillizzano
solo quando hanno ogni dato davanti, lo hanno imparato a memoria.
A loro non deve sfuggire alcun aspetto, anche le piú piccole
variazioni vengono registrate e fatte proprie. Lo stesso argomento è
studiato e ripassato infinite volte finché non diventa tutt’uno con la
tesista. Sono le compilative, quelle dalla bibliografia invidiabile per
numero di voci. Alle altre, quelle gioiose e un po’ sbadate, piene di
nervi, senza pazienza e però perennemente affacciate sulla vita e i
suoi cambiamenti: a quelle va meglio la tesi sperimentale, il metodo
da verificare con prove ed errori. La strada è piú lunga e insidiosa,
ma il risultato, quando arriva, è indimenticabile: apre davvero nuove
porte. Queste qui sono quelle che prendono i voti piú alti, del resto
una convenzione della commissione di laurea vuole che si assegni la
lode solo alle tesi sperimentali.
Per diventare docente e fare carriera, però, per essere davvero
forti, bisogna avere entrambi gli animi: quello compilativo e quello
sperimentale. È cosí che ho fatto strada. Non sono Marilyn Monroe.
Solo Marilyn è Marilyn. Ma sono stata una donna assennata e
giudiziosa. Ho studiato e fatto studiare. Ho preteso da tutti quelli che
ho incontrato almeno due terzi di quello che pretendo ogni mattina
da me stessa. Sono stata mossa da una vera curiosità, da un
insaziabile desiderio di conoscenza. E oggi posso fare mia una
battuta che Marilyn pronuncia ne Gli uomini preferiscono le bionde:
«Non ci sto provando, ma ci riuscirei».
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