Dove sei stanotte – Alessandro Robecchi

SINTESI DEL LIBRO:
Spinge con piccoli strappi nervosi un carrello del supermercato che si
incastra malamente nelle fessure del marciapiede, traballa, si inclina. Lui, si
inclina anche lui, e anche lui, come i sacchetti e gli stracci nel carrello,
sembra lì lì per cadere da un momento all’altro.
Ha scarponi vecchi, uno aperto sulla punta, che sembra un sorriso
sdentato. Il suo sorriso, invece, non c’è, o non si vede, perché la barba è
lunga e l’odore... beh, l’odore non è che ti invoglia ad avvicinarti per
controllare.
Poi, se il barbone vecchio sorride o no non è cosa che interessi a
qualcuno: quel quartiere lì e il romanticismo a base di clochard sono
parecchio lontani tra loro.
Gira in zona da qualche giorno, pioggia o sole. E siccome piove spesso,
perché aprile è il più crudele dei mesi, ma anche questo maggio non scherza,
è spesso zuppo e fangoso. Domicilio: sotto il cavalcavia di viale Lucania, ma
meglio i due gradini della tintoria di via Mompiani. È chiusa da due anni, il
vecchio è morto e la vecchia è tornata al paese: in quel posto lì non ci
vogliono andare nemmeno i cinesi, la serranda è arrugginita e ammaccata e
sono sbiadite anche le scritte: «Latinos» e «Mirco suca».
Ma è un posto prezioso, perché il negozio ha due scalini davanti, che
possono essere sedia, divano, letto e persino chaise longue, all’occorrenza,
nella città del design.
E in più si vede bene tutta la via e benissimo i portoni del 6, dell’8 e del
10, se ti sporgi un po’.
Così il barbone si siede lì, accosta al muro il suo prezioso carrello pieno, si
appoggia alla serranda e guarda nel vuoto.
Sembra che guardi nel vuoto.
Fa così da quattro giorni.
E smette di piovere. No, ricomincia.
Beh, è uguale.
Due
Seduto in pizzo su uno dei divani bianchi, un bicchiere in mano, lo
sguardo che si posa ovunque e in nessun posto, Carlo Monterossi non riesce
a pensare ad altro:
«Cosa cazzo ci faccio qui?».
Solo che «qui» è casa sua, i divani bianchi sono quelli del suo salotto, il
whisky che sta bevendo è suo, e dunque si rende conto lui per primo che la
domanda dovrebbe essere più articolata e complessa.
Dovrebbe chiedersi, per esempio, cosa cazzo ci fanno lì tutti quei tizi,
perché intorno a lui c’è parecchia gente, gente che conosce, gente che non
ha mai visto, gente che entra dalla porta d’ingresso in folate veloci e
vocianti. Amici, una decina, qui e là, amici di amici, gente di passaggio, un
bicchiere e via, imbucati, colleghi che non vorrebbe vedere nemmeno sul
lavoro, figurarsi qui. Amici dei colleghi. Ragazze sedicenti giovani,
architetti, architetti di sinistra, gente che trova Milano «così stimolante
quando c’è il Salone del Mobile», gente che ha solo sentito che c’era una
festa... Hai visto Nando? No... Ah, mi ha invitata lui...
E chi cazzo è Nando?
Era stata un’idea stupida, ovvio.
E come tutte le idee stupide era bastato lasciarla andare, lui si era limitato
a non fermarla. Così aveva diffuso la voce: una festa. Sì, il compleanno, ma
questo era secondario. Una festa, sì, dillo in giro, porta chi vuoi, siete in
quattro?, venite, che problema c’è?
E ora Carlo Monterossi, il festeggiato, si trova al centro della sua festa,
per niente festoso.
Qualcuno pasticcia la musica, tutti bevono, tutti attingono dalle due
enormi casse in plastica Ikea piene di ghiaccio e bottiglie, tutti tagliano
limoni o pestano foglie di menta e zucchero di canna nella grande cucina hitech, tutti chiacchierano in piccoli capannelli.
E qualcuno – mioddio, ti prego – qualcuno balla.
Composizione sociale: gente della tivù, perché Carlo Monterossi con la
tivù ci lavora e ci campa.
La sua creatura, Crazy Love, è un programma che macina ascolti, introiti
pubblicitari, feroci critiche degli intellettuali. Flora De Pisis, la famosa
conduttrice che lo presenta, è il simbolo inarrivabile del nazional-popolare –
versione trash, non versione Gramsci – e dispensa ogni mercoledì sera un
terrificante liofilizzato di amorazzi popolari, tresche proletarie, tradimenti
piccolo-borghesi che farebbero vomitare un avvoltoio. In poche parole: un
trionfo.
Carlo Monterossi quel successo non lo voleva così – forse non lo voleva e
basta – ma ci si è trovato in mezzo. La bizzarra condizione di quello che è
stimato, riverito, pagato e invidiato per una cosa a cui darebbe fuoco con
una latta di kerosene.
E va bene. Ma poi tra gli ospiti ci sono anche scapigliati elegantini in
transito tra un evento e l’altro della grande città produttiva impavesata per
uno dei suoi appuntamenti annuali più glamour, la festa dei tavolini e delle
seggioline. E poi gruppetti di amici semi-infiltrati perché il padrone di casa è
uno che conosce uno che conosce uno che conosce uno che gli ha detto,
boh, c’è una festa. E poi esperti di figa-watching. E poi gli amici veri,
categoria allargata fino a quelli di cui Carlo conosce nome e cognome, in
percentuale minima, tra cui Oscar Falcone, che ora è su un altro divano,
abbastanza perduto al mondo, un po’ per l’alcol e un po’ per la scollatura
della tizia con cui sta parlando, e naufragar gli è dolce eccetera eccetera, o
almeno si vede che gli piacerebbe.
C’era stata, naturalmente, la processione dolorosa delle strette di mano.
Gli «Ora che combini di bello?», i «Ti presento Caio, grande amico di
Sempronio», i «Ti ricordi di Giulia, vero? Ora fa la costumista per il teatro»,
e gli immancabili «Sentiamoci che ti devo parlare di una cosa» e «Sto
lavorando a un progetto, vorrei il tuo parere». Tutto insieme e tutto confuso
e tutto impellente e insignificante. Tutto sistemato, archiviato e risolto con
piccoli cenni di assenso e sorrisi buttati lì.
Ci mancherebbe, quando vuoi.
Non che il whisky aiuti.
Però è ammirato. La capacità di alcuni di vagare in uno spazio
sconosciuto con un bicchiere in mano parlando indifferentemente di nulla e
di tutto, ascoltando nulla e tutto come se fosse la cosa più naturale del
mondo, lo affascina. L’homo mondanus, se non sei mondanus per niente,
rischia di essere l’unica attrazione di una festa. Pure se è la festa tua.
C’è una tizia a piedi nudi, un’altra con troppi gioielli. Un tizio grasso che
critica con voce tesa l’ultima collezione di tavolini di Taluno, un passo
indietro rispetto... mentre i tavolini disegnati da Talaltro sì che sono
armonici... e i materiali... la ricerca...
La ricerca dei tavolini, come no.
Un tipo, cinese, o coreano, o giapponese, se ne sta seduto impettito su un
divano bianco, il divano dove Oscar Falcone tenta il colpo della serata come
se fosse amore, e guarda nel vuoto, estraneo a tutti. Una signora del tipo
beat ansiosa di sembrare dei quartieri alti, o dei quartieri alti ansiosa di
sembrare un tipo beat, si affanna alla ricerca di un certo Paolo, che non si sa,
non risponde, non si trova, e Carlo fa il tifo per lui. C’è il direttore della
rivista d’arte circondato da un capannello di giovanotti e giovanotte che gli
danno ragione.
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