Donne che comprano fiori – Vanessa Montfort

SINTESI DEL LIBRO:
In un piccolo quartiere del centro di Madrid, popolato da attori, personaggi
all’avanguardia di ogni genere, coppie senza figli, deputati ambidestri che
condividono un vermut tra una seduta e l’altra; in questo microcosmo con il
suo Cristo miracoloso, la sua setta distruttiva, le sue muse, i suoi teatri e le
sue piccole gallerie, le sue manifestazioni quotidiane, le sue frasi di scrittori
famosi calpestate dai turisti, i vecchi abitanti, i ciclisti militanti, i jazzisti e gli
archeologi che cercano scrupolosamente le ossa di Cervantes... in questo
quartiere ci sono anche cinque donne che comprano fiori.
All’inizio nessuna lo fa per se stessa: una lo fa per il suo amore segreto,
una per il suo ufficio, la terza per dipingerli, un’altra per le sue clienti,
un’altra ancora... per un morto. Quest’ultima sono io e questa, suppongo, è la
mia storia.
Olivia è il nome di un angelo
Nel quartiere non c’era nessuno che fosse d’accordo quando si trattava di
stabilire da quanto tempo fosse lì. Chiesi ai camerieri della taverna La
Dolores e loro mi assicurarono che era da poco, invece quelli di Casa Alberto
erano sicuri che fosse lì da sempre. Ciò su cui concordavano tutti era che il
Giardino dell’Angelo era un negozio di fiori e si chiamava così da almeno
duecento anni, forse perché in quel posto ce n’era sempre stato uno e i vari
proprietari semplicemente si passavano il testimone. Quando Olivia fosse
andata via, sarebbe arrivato un altro angelo con un’altra missione. Era chiaro.
A chiunque lo si chiedesse, per gli abitanti del quartiere era come se Olivia
fosse sempre stata lì e quel cancello e i suoi fiori fossero sbocciati intorno a
lei a un certo punto del Ventesimo secolo. Cosa o chi fosse stata in
precedenza era difficile stabilirlo. Non lo sapeva nessuno. Oppure quelli che
lo sapevano proteggevano la sua intimità e il suo segreto. Nessuno sapeva se
il negozio di fiori fosse suo o affittato. Alcuni vociferavano che fosse stata
una ricca ed eccentrica ereditiera. Altri credevano che fosse l’amante di un
uomo illustre o forse un’attrice celebre che aveva raggiunto la fama
all’estero. E in effetti nella sua voce sbocciavano tracce di altri possibili
paesi, come capita a chi parla più di una lingua: le “s” le sibilavano tra i denti
un po’ più del normale, le vocali erano flautate come nei paesi francofoni, ma
la sua pronuncia era perfetta e la sua voce grave e serena come quella delle
piante.
La prima volta che la vidi fu tre giorni dopo essere approdata nel quartiere.
Da quando avevo scoperto il Giardino dell’Angelo ci passavo davanti varie
volte al giorno, ma non mi decidevo mai a entrare. Il piccolo appartamento
che avevo affittato da poco mi opprimeva. Il caldo era insopportabile e
rendeva più intenso l’odore di pittura. Non avevo ancora l’aria condizionata e
le valigie piene e intatte mi facevano da tavolo e da sedia, oppure le usavo per
salirci quando non riuscivo ad arrivare alla manopola per chiudere il gas della
cucina. Perciò quelle passeggiate e la visione di quell’oasi mi aiutavano a
procurarmi la mia dose quotidiana di ossigeno.
Quella sera scesi in strada con addosso gli stessi vestiti con cui avevo fatto
le pulizie in casa: un paio di vecchi jeans, una canotta ancora più vecchia e le
ciabatte che usavo per uscire dalla doccia. Quando mi vidi nello specchio
dell’ascensore mi sembrò di essere tutta scolorita. Dalla scollatura si
vedevano le ossa che trasparivano sotto la pelle. I capelli neri e lisci erano
strozzati in una coda. Il viso era bianco, senza trucco; gli occhi gonfi per la
polvere.
Quando, trascinando i piedi, arrivai in piazza, mi sorprese trovare il
negozio ancora aperto. Era illuminato da lampadine colorate e piccole
lanterne di carta appese agli alberi che, insieme a un grillo che sembrava
essersi installato su un enorme olivo per tenere il suo concerto, regalavano
alla scena un’atmosfera da festa di paese. L’Olivo, robusto e centenario,
occupava il centro del giardino e ai suoi rami era appesa una rudimentale
altalena di corda.
Superai il cancello con una certa circospezione seguendo un sentiero di
piastrelle di pietra con l’illusione che fossero gialle e con la segreta speranza,
adesso lo so, che alla fine di quel sentiero mi aspettasse il Mago di Oz. C’era
odore di terra bagnata. Tra le ombre dei rami e sotto un tendone bianco
arrivai a scorgere un tavolino di ferro battuto con sopra un calice di vino e un
libro aperto. La porta della serra era spalancata.
Quella fu la prima volta che la vidi. Perché tutte quelle cose erano già
Olivia. All’interno, un brano jazz anni quaranta accarezzava le foglie delle
piante, cullava le ceste di fiori appese, fuggiva via, sospinto dagli spruzzi
degli irrigatori. Qui e là farfalle colorate di cellofan che decoravano le
vetrate, acquerelli luminosi a tema floreale esposti in ogni angolo, contenitori
riciclati da altre vite con mazzi di fiori ai quali allora non sapevo dare un
nome. In fondo, dietro a una vetrata, una grande fontana antica di pietra
addossata al muro di mattoni a vista, al centro della quale la testa di uno
strano leone sputava acqua in una vasca piena di ninfee. In qualunque
anfratto, con qualunque pretesto, in quel negozio la vita sbocciava sotto
forma di pianta. Dal tetto spiovente pendevano decorazioni di vetro soffiato,
corone intrecciate con rami, fiori e pigne secche, messaggi allegri dipinti su
cartelli di legno e un bancone su cui erano esposte vecchie cartoline: il
quartiere nell’Ottocento, nei primi anni del Novecento, vecchi cartamodelli,
quadri dei musei vicini, antichi cartelloni del Teatro Español e di quello de la
Comedia. Al centro, un libro degli ospiti aperto su un messaggio in
giapponese circondato da cuori. E un altro libro foderato di velluto rosso sulla
cui copertina era impresso un titolo: Diario di campo.
Non riuscii a trattenermi. Lo aprii all’altezza della pagina dalla quale
spuntava il segnalibro di raso.
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