Come pioggia sul cuore – Mariarosaria Guarino

SINTESI DEL LIBRO:
Il caldo non mi era mai sembrato tanto intenso o, forse, era il fatto di
essere stata lontana per ben due anni a farmi sentire tanto fuori posto. Scesi
in cucina, stiracchiando le braccia, e mi guardai attorno alla ricerca di
qualcosa con cui arginare la sete che mi stava facendo impazzire. Non c’era
nessuno a parte mia nonna che, appollaiata sul divano, era intenta a leggere,
per l’ennesima volta, Cime tempestose. Ormai intuivo senza fatica quando
era immersa nella lettura di quel libro, non avevo neanche bisogno di
avvicinarmi per capirlo, ma mi bastava intravedere la copertina consunta e
il modo in cui ripeteva a memoria parti intere della storia come per
recitarle.
«Nel frigo c’è della limonata, se ne vuoi».
Sobbalzai. Come facesse, ogni volta, a sapere dove mi trovassi senza
neanche voltarsi, era una delle doti di cui si era sempre vantata sin da
quando ero bambina e, ancora oggi, mi sorprendeva. Mi accomodai al suo
fianco, con un bicchiere di spremuta, e mi baciò sulla guancia,
compensando subito dopo la dolcezza del momento con un pizzicotto.
«Non dovresti startene qui con una vecchia come me, perché non esci?
Sembri annoiata».
Fare due passi non mi avrebbe fatto di certo male, così accettai il
suggerimento e mi alzai. Alla porta ebbi giusto il tempo di infilare il
guinzaglio al piccolo Cavalier King, che questi si precipitò oltre l’uscio e
prese a strattonarmi.
«Artù, non tirare!»
Da quando eravamo tornati a Seoul il mio cucciolo pareva rinato, tuttavia
era irrequieto e provava di continuo a liberarsi per correre via, così mi
toccava stargli attaccata tutto il giorno per tenerlo sotto controllo. Nella
nostra casa a San Diego avevamo un grande giardino e lui era libero di
correre e giocare, ma quando andavamo a trovare i nonni, in estate, ero
costretta a tenerlo in casa o a mettergli il guinzaglio, per cui diventava
ingestibile. Tra l’altro, non so come facesse ma riusciva a sfilarlo di
continuo e io ero costretta a corrergli dietro tutte le volte. Neanche si fosse
trattato di una maledizione, sentii la fune smettere di tirare e lo vidi correre
via, come impazzito, costringendomi a rincorrerlo. Provai a chiamarlo, però
non si fermò, poi lo persi di vista.
«Artù, dove sei?»
Avanzai nel parco e guardai in giro, in preda al panico, poi lo vidi saltare
e scodinzolare attorno a un ragazzo alto, poco lontano. Il tipo poggiò a terra
la grossa borsa sportiva, fino a un attimo prima collocata su una spalla, e si
accovacciò.
«Ehi, da dove arrivi?»
Mi avvicinai un po’, inclinando la testa per osservarlo meglio. Aveva
qualcosa di familiare, eppure non riuscivo ad associarlo a qualcuno in
particolare. Lui non si accorse di me e continuò a giocare con Artù.
«Salta qui, forza!»
Il cucciolo obbedì subito, mettendogli le zampe anteriori sulla gamba e
leccandogli la mano mentre lui gli accarezzava le orecchie. Nessuno
riusciva ad avvicinare in quel modo il mio cane, nessuno tranne me…
«Artù?»
Il tipo voltò la testa dalla mia parte e strinse gli occhi a causa del sole, poi
si alzò col cagnolino tra le braccia. Indossava dei bermuda che lasciavano
scoperti i polpacci torniti, scarpe sportive e la giacca di una tuta, come fosse
reduce da un allenamento.
«Ciao, è tuo?»
Lo fissai un attimo, senza parlare, chiedendomi da quale rivista fosse
uscito, poi mi riscossi.
«Sì, scusa se ti ha dato fastidio». Si avvicinò e mi porse il fuggitivo.
«Nessun fastidio, mi ricorda un po’ il mio». Recuperai il piccolo teppista
e lo sistemai tra le braccia.
«Hai un cane?» I suoi occhi si incupirono, anche se durò soltanto un
attimo.
«Ne avevo uno».
Mi morsi le labbra. «Scusa».
«Non potevi saperlo, giusto? Era anziano ed è mancato parecchi anni fa,
non dispiacerti». Era vero, tuttavia mi sentivo ugualmente in imbarazzo.
«Sei americana?»
Lo fissai di nuovo, confusa dal cambio di argomento, e cominciai a
camminare per nascondere l’imbarazzo. Di solito ero un tipo riservato, ma
in quel momento sentivo di voler parlare, forse a causa dei pesanti silenzi
che di recente regnavano a casa mia, e lui sembrava disposto ad ascoltare.
Mi affiancò, a suo agio come un amico di vecchia data, e mi sorpresi a
pensare che la cosa non mi dava neanche troppo fastidio.
«Si nota molto?»
Non possedevo dei tratti orientali marcati, visto che solo la nonna aveva
origini coreane, e gli occhi un po’ a mandorla e i capelli castani avevano
tratto in inganno più di una persona.
«Escludendo i lineamenti e l’accento perfetto, direi che è evidente».
«In realtà, solo mia nonna è di Seoul. Quando incontrò mio nonno si
trasferì in America, anche se da un po’ di anni vivono qui, così veniamo a
trovarli di tanto in tanto, in estate. Mi ha insegnato lei».
«Se non fossi tanto rilassata e per niente formale ti avrei scambiata per
una del posto. È stata una buona insegnante».
Mi fermai e arrossii. Ogni volta mi dimenticavo le differenze culturali e
finivo col commettere gli stessi errori imbarazzanti. Non ci conoscevamo e
forse era persino più grande di me, eppure secondo le abitudini locali gli
stavo parlando senza alcun rispetto.
«Non sono abituata al modo di parlare di qui, scusa». Mi chinai in avanti,
adottando un linguaggio formale, e lui rise.
«Non c’è bisogno di scusarti, da ragazzino ho vissuto all’estero anch’io e
al ritorno, ogni volta, era difficile ricordarmene e abituarmi di nuovo a
questo modo di parlare. A dire il vero, credo che tutta questa formalità sia
stancante, anche se forse sono io a non volerla accettare».
«Sai parlare inglese, allora?»
«Sì, lo preferisci?»
Mi aveva risposto in modo impeccabile utilizzando quella lingua e io
scossi la testa.
«No, parlare il coreano mi permette di tenermi in allenamento e quindi ne
approfitterò per non arrugginirmi».
«È un ottimo modo di vedere le cose».
Nonostante il suo aspetto, il modo di fare era completamente diverso da
quello delle persone del posto, sembrava un americano naturalizzato.
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