La notte dell’oracolo – Paul Auster

SINTESI DEL LIBRO:

 Ero stato malato per molto tempo.
Il giorno in cui lasciai l’ospedale
camminavo a fatica e quasi non
ricordavo piú chi avrei dovuto
essere. Usi la volontà, mi disse il
medico, e in tre o quattro mesi
tornerà come prima. Non gli
credetti, ma seguii lo stesso il suo
consiglio. Mi avevano dato per
morto, e ora che avevo smentito i
pronostici evitando misteriosamente
di morire, che scelta mi restava se
non vivere come se mi aspettasse
una vita futura?
Incominciai con escursioni brevi:
non piú di un paio di isolati dal mio
appartamento e poi rincasavo.
Avevo trentaquattro anni, ma a ogni
effetto pratico la malattia mi aveva
trasformato in un anziano – uno di
quei vecchi anchilosati che
procedono strascicando, non
riuscendo a muovere un passo dopo
l’altro senza prima avere guardato
quale piede sta avanti e quale
indietro. E anche all’andatura lenta
che allora mi riusciva di imbastire,
camminare mi dava un capogiro
strano, aereo; un disordine di segnali
eterogenei e di fili mentali
incrociati. Il mondo sobbalzava e
fluttuava davanti ai miei occhi
oscillando come i riflessi di uno
specchio ondulato: e ogni volta che
cercavo di guardare una cosa
singola, di isolare un oggetto dal
turbinio aggressivo dei colori – per
esempio un foulard azzurro attorno
al capo di una donna, o i rossi
fanalini di coda di un furgone di
passaggio – questo cominciava
subito a scindersi e a dileguarsi,
svanendo come una goccia di tintura
in un bicchier d’acqua. Tutto vibrava
e tremolava, tutto si allontanava
svelto in varie direzioni, e nelle
prime settimane distinguevo a stento
dove finisse il mio corpo e
cominciasse il resto del mondo.
Andavo a sbattere contro i muri e i
bidoni dei rifiuti, restavo impigliato
in guinzagli di cani e cartacce
svolazzanti, incespicavo sui
marciapiedi piú lisci. Pur vivendo da
sempre a New York non capivo piú
né le vie né la folla, e ogni volta che
partivo per una delle mie piccole
sortite mi sembrava di aver perso la
strada in una città ignota.
Quell’anno l’estate arrivò presto.
Già alla fine della prima settimana
di giugno il clima si era fatto greve,
stagnante, pestilenziale: un giorno
dopo l’altro cieli torpidi e verdastri;
l’aria soffocata dalle esalazioni dei
rifiuti e degli scarichi; la calura si
alzava da ogni mattone, da ogni
lastra di cemento. Tuttavia non
cedetti, imponendomi di scendere la
scala ogni mattina e camminare per
le strade; e mentre quel groviglio
che avevo nella testa cominciava a
dipanarsi e riacquistavo lentamente
le forze, riuscii ad allungare le
passeggiate fino alle propaggini del
quartiere. I dieci minuti diventarono
venti; passai da un’ora a due; e da
due ore a tre. Con i polmoni in
debito di ossigeno, la pelle
costantemente sudata, vagolavo
come uno spettatore dentro il sogno
di un altro, guardando il mondo che
avanzava arrancando, nello stupore
di aver potuto un tempo essere
uguale alla gente attorno a me:
sempre di fretta, sempre diretto da
un posto in un altro, sempre in
ritardo, sempre in lotta per farci
stare altre dieci cose prima del
tramonto. Non ero piú attrezzato per
quel gioco. Adesso ero merce
avariata, un coacervo di parti
difettose ed enigmi neurologici: e la
smania generale di arraffare e
spendere mi lasciava freddo. A mo’
di irrisorio sollievo ripresi a fumare
e ammazzavo i pomeriggi nei caffè
con l’aria condizionata, ordinando
bibite gassate e panini caldi al
formaggio mentre orecchiavo i
discorsi e fino all’ultima riga
leggevo tutti gli articoli di tre
giornali diversi. Il tempo passava.
 

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