Oggi più di ieri – R.L. Mathewson

SINTESI DEL LIBRO:
«Sei licenziata!», sbraitò Lucifer mentre lanciava un’occhiataccia
alla piccola donna seduta di fronte a sé, sfidandola in silenzio a
discutere con lui, di nuovo.
Era da cinque, lunghi e dannatissimi anni che cercava di licenziare
la donna che ricambiava il suo sguardo con quegli occhi azzurri
falsamente innocenti e, ogni singola volta, lei riusciva in qualche
modo a farla franca, ma non quel giorno.
Questa volta aveva superato il limite.
«È per le uniformi?», chiese Rebecca Shaw, il flagello della sua vita,
con un leggero cipiglio che non fece altro che farlo incazzare ancora
di più.
«Sì», ringhiò contro la piccola ipocondriaca, che saltava più giornate
di lavoro di tutti gli altri dipendenti messi assieme, mentre cercava di
resistere alla tentazione di strangolare quella donna impicciona che
aveva reso la sua vita un vero inferno fin dal giorno in cui aveva fatto
la stupidaggine di assumerla.
Lei si accigliò ancora di più mentre lanciava un’occhiata alle sue
spalle verso la pila di scatole arrivate appena un’ora prima. «Hanno
sbagliato l’ordine?», domandò, avendo addirittura le palle di apparire
adorabilmente confusa mentre riportava l’attenzione su di lui.
«Puoi dirlo forte», le rispose, onestamente sorpreso di non essersi
ancora messo a urlare contro quella rompipalle.
Lucifer guardò l’orologio della Coca-Cola appeso sopra la porta e
notò che era ancora presto. Di solito, le ci volevano dieci minuti
buoni per portarlo a urlare a pieni polmoni monosillabi e invettive
incoerenti.
«Dannazione!», gemette Rebecca alzandosi in piedi. Scuotendo la
testa incredula, si diresse verso le scatole che l’indomani mattina
sarebbero state restituite e aprì quella che stava vicino alla porta.
«Speravo che avremmo potuto averle per venerdì», spiegò mentre
tirava fuori una maglietta nera e la ispezionava.
«Sono sicuro che ci sperassi», ribatté lui ironicamente mentre la
guardava ispezionare le magliette, i grembiuli e i pantaloni impilati
con ordine nella scatola.
«Non vedo quale sia il problema», disse lei, con uno dei suoi
dannati sospiri che gli davano sempre sui nervi, mentre guardava la
maglia che aveva in mano prima di ricominciare da capo l’ispezione.
«Ah no?», domandò lui sollevando un sopracciglio mentre si
appoggiava allo schienale della sedia e…
«Ma che cavolo stai facendo?», le chiese quando la donna, di cui
avrebbe dovuto intuire anni prima la pazzia, si tolse la maglietta
bianco sporco del Fire & Brimstone (“La punizione del fuoco eterno”)
e la lanciò sulla sua scrivania, rimanendo solo con un reggiseno
nero che sembrava sforzarsi per evitare che i grossi seni pallidi, che
lei in qualche modo era riuscita a infilarci dentro, uscissero fuori.
«Provo la nuova uniforme», spiegò con un’espressione che gli
diceva chiaramente che avrebbe dovuto essere più che ovvio quello
che quella donna folle stava facendo, mentre lui, chiedendosi dove
avesse sbagliato, se ne stava seduto a guardare impotente Rebecca
che si aggiustava il reggiseno.
Fu in quel momento che capì che sarebbe sempre stato contento di
essere uno stronzo, altrimenti…
«Non. Pensarci. Nemmeno. Cazzo», sbraitò sottolineando ogni
sillaba per essere sicuro che lei lo avesse sentito.
Rebecca smise di sbottonarsi i pantaloni e aprì la bocca per
ribattere, ma qualcosa nella sua espressione dovette far capire a
quella donna psicotica che stava a tanto così dallo strozzarla con le
sue stesse mani. Con un sospiro sofferente, che avrebbe fatto
vergognare qualsiasi uomo della famiglia Bradford, si riabbottonò i
pantaloni e gettò di nuovo nella scatola quelli che stava per provare.
«Ancora non vedo quale sia il problema», disse gesticolando verso
la maglia che non avrebbe mai dovuto ordinare.
«Questo perché sei… dove cazzo stai andando?», le chiese quando
lei si girò all’improvviso e uscì senza dire altro, scappando proprio
mentre stava per licenziarla e facendo aumentare la sua rabbia fino
a livelli omicidi.
Rimase lì seduto per un altro minuto, rifiutandosi di rincorrerla.
Aveva programmato di licenziarla nel suo ufficio, ci aveva
fantasticato sopra, e quindi lo avrebbe fatto in quel cazzo di ufficio.
Aprì la bocca e stava per ordinarle di riportare il culo lì dentro in
modo da poter realizzare quella sua fantasia quando le parole che le
uscirono dalle labbra lo fecero imprecare ferocemente e schizzare
verso la porta.
«Ehi, Tim! Che ne pensi delle nuove uniformi?».
Mentre usciva dall’ufficio ed entrava nella sala bar come una furia,
decise che l’avrebbe uccisa e scoprì che la piccola rompipalle stava
mostrando a tutti l’uniforme che aveva ordinato alle sue spalle.
«La adoro!», disse con aria di approvazione Abigail, la ragazza che
gestiva il bar, facendolo incavolare ancora di più perché non c’era
niente che non andasse in quelle dannate uniformi che aveva
disegnato dieci anni prima!
«Era ora, diamine!», esclamò Tim con un sorriso che sparì subito
quando vide Lucifer camminare verso di loro.
«Penso che andrà molto meglio con le nuove…», iniziò a spiegare
Rebecca, ma poi le parole le si affievolirono con un sospiro
rassegnato quando lui la afferrò e la prese in spalla. «Non avevamo
già parlato di questa tua abitudine di strapazzarmi?», domandò lei
sistemandosi sulla sua spalla e mettendosi comoda mentre lui
ritornava nell’ufficio.
«Dobbiamo farci una chiacchierata», spiegò Lucifer con tono calmo,
decidendo che non c’era bisogno di urlare e rovinare quell’occasione
importantissima.
«Un’altra?», chiese lei senza sembrare particolarmente preoccupata
mentre lui la riportava di nuovo in ufficio, fermandosi solo quel tanto
che bastava per chiudere con un calcio la porta dietro di sé prima di
depositare quella cameriera indesiderata sulla vecchia sedia
traballante che riservava per occasioni simili. Con uno dei suoi soliti
sospiri, tornò alla scrivania, soddisfatto che al mondo tutto fosse
come dovesse essere.
Si sedette, si schiarì la gola e aprì la bocca per recitare il discorso
su cui aveva lavorato fin dal momento in cui aveva capito di aver
sbagliato ad assumerla ma, dopo una breve pausa, inspirò a lungo e
in maniera soddisfatta, decidendo di assaporare quel momento.
Fu un errore e una parte di lui lo sapeva già quando decise di farlo
ma, dopo cinque lunghi anni di inferno e di cazzate, non riuscì a
impedirselo. Dopo tutte le stronzate folli che lei aveva portato nella
sua vita, aveva voluto assaporare il prezioso momento in cui se ne
sarebbe finalmente liberato.
«Speravo di riuscire a parlare con te questa mattina», disse il suo
promemoria personale che gli ricordava che l’inferno esisteva
davvero mentre si alzava e faceva il giro della scrivania. Questa
volta, però, lui si era preparato e prima aveva messo una grossa
catasta di cartelline sull’angolo della scrivania in modo tale che lei
non potesse…
«Che cavolo pensi di fare?», domandò Lucifer mentre lei superava
con semplicità la grossa catasta di cartelline che aveva impilato per
tenerla alla larga dal suo posto abituale e saltava sulla scrivania.
Proprio. Davanti. A. Lui.
«Niente», rispose lei gettandogli un’occhiataccia, come se fosse lui
ad aver perso la testa.
«Togliti», sbraitò a denti stretti mentre lei accavallava lentamente le
gambe, si chinava all’indietro e afferrava…
«Per favore, dimmi che stai scherzando», disse Lucifer quando
quella donna folle allungò una mano per afferrare il portablocco che
l’aveva aiutata a rendergli la vita un inferno negli ultimi cinque anni.
Ancora non era sicuro di come facesse, ma Rebecca tirava fuori
quel dannato portablocco ogni volta che provava il desiderio di
vedere se lui voleva farsi dai dieci anni all’ergastolo dietro alle sbarre
per omicidio colposo. Non lo portava mai in giro ma sembrava
sempre a portata di mano, una cosa che lo aveva fatto uscire pazzo
finché non aveva capito che stava permettendo alla piccola
rompipalle paffutella di esercitare quel potere su di lui. Quando lo
aveva capito, aveva costretto se stesso a fregarsene del fatto che lei
riuscisse a tirare fuori dal nulla quello strumento di tortura e a
rovinargli tutta quanta la giornata con appena qualche “punto
chiave”.
«Ho dovuto passare Jen al turno di mattina, perché stamattina ho
un appuntamento. Comunque, dovrei tornare per l’ora di punta»,
iniziò a dire Rebecca cercando di rimandare l’inevitabile e portare
tutta quella storia a nuovi livelli di pateticità.
«È inutile che ritorni», spiegò lui prima di aggiungere: «Sei
licenziata».
«Sì sì», mormorò lei con aria assente, ignorandolo palesemente, il
che, sfortunatamente per Rebecca, era una delle cose che più lo
facevano incazzare.
Be’, a essere onesti, lui odiava molte cose in quasi tutte le persone.
Tranne quelle della sua famiglia. Le tollerava perché doveva farlo,
altrimenti sua madre gliele avrebbe suonate.
Poi, ovviamente, suo padre si sarebbe sentito obbligato a fargli un
culo così per aver sconvolto la madre.
E poi anche i suoi fratelli avrebbero provato a fargli un culo così.
Questo nel caso in cui fosse sopravvissuto ai calci nel sedere che gli
avrebbe dato il padre, cosa di cui dubitava. Quindi, per istinto di
sopravvivenza, tollerava la sua famiglia.
Fino a un certo punto.
Magari doveva riconoscere la loro esistenza e trattenersi
dall’ucciderli quando lo infastidivano, ma non avrebbe mai permesso
a nessuno di loro di entrare nel suo ristorante, a prescindere da
quanto si lamentassero e, Dio, come si lamentavano!
«Tornerò per l’ora di punta», ripeté la sua spina nel fianco
ricordandogli che in quel momento avrebbe dovuto realizzare una
delle sue fantasie.
Per nulla al mondo le avrebbe permesso di rovinargliela. Aveva
sognato di farlo e, ora che lo stava facendo, aveva intenzione di
assaporare ogni momento.
«Sei licenziata», ripeté Lucifer traendo una soddisfazione perversa
nel farsi scivolare tra le labbra quelle due parole.
«Questa mattina ho messo Eric al frigorifero e gliel’ho fatto pulire
oggi invece di domani, visto che riceveremo la consegna in
mattinata», disse Rebecca con un leggero cipiglio che lui rifiutò di
trovare adorabile mentre lei, con aria assente, allungava un braccio,
prendeva il suo caffè e ne beveva un sorso prima che lui riuscisse a
fermarla. Non appena ebbe finito, le tolse la tazza dalla mano.
«Non hai sentito quello che ho appena detto?», le domandò con
un’occhiataccia mentre quell’essere frustrante gli toglieva
nuovamente la tazza dalla mano e beveva un altro sorso prima di
ridargliela, lasciandolo lì seduto a fissare quella donna che si
rifiutava di andarsene.
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