L’Obbedienza non è piu’ una virtu – Lorenzo Milani

SINTESI DEL LIBRO:
Guai a voi che fate leggi ingiuste per opprimere il mio popolo.
Così negate la giustizia ai poveri e li private dei loro diritti;
sottraete alle vedove e agli orfani i loro beni.
Isaia 10, 1-2
Introduzione
“Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo
Cristo.
Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che
non vogliono aprire gli occhi sulla luce”. Don Milani priore di
Barbiana studia da profeta. Lo dice a volte con l’ironia ed il sarcasmo
che gli sono consueti. E lo dice da profeta moderno, anche con il suo
linguaggio che per forza e immediatezza non può non ricordare i
profeti della Bibbia.
Isaia in testa.
Quella di don Lorenzo Milani, prete ortodosso fino allo spasimo,
fino alle lacrime, è una vera e propria strategia, un metodo: sulle
orme di Socrate e di Cristo, vuol turbare le coscienze, condurle alla
riflessione critica.
“Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che
contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero” scrive,
illustrando il suo metodo pastorale.
“Vedi, con la dolcezza - spiega a un altro prete, don Renzo Rossi
-
raggiungerei soltanto quelli che non hanno bisogno delle mie
osservazioni.
Con la durezza invece ho la speranza di sconquassare quelli, in
buona fede, che non potrei raggiungere. Chi riceve uno schiaffo, se
è in mala fede, reagisce male, si ribella. Se invece è in buona fede,
viene scosso, e poi è portato a riflettere. Con la dolcezza lo lascerei
nell’illusione!”.
Sulla sua figura di profeta il priore di Barbiana scherza con una
strana drammaticità. “…ho cambiato malattia - fa sapere in una
lettera al suo avvocato, Adolfo Gatti -. Contro ogni regola scientifica
son passato dal linfogranuloma alla leucemia mieloide. Due malattie
altrettanto inguaribili ma l’una e l’altra dotate dell’unica qualità che mi
sta a cuore cioè di non richiedere operazioni. Perché io sono un
profeta e un eroe, ma fino alle estrazioni dentarie escluse (lo sa che
in antico dicevano “lo giuro sui miei genitori ecc. ecc. fino al rogo
escluso”?)”. Ironia dunque. Ma le condizioni di vita, relegato tra i
monti del Mugello a Barbiana; il modo di esprimersi sempre diretto,
chiaro e dirompente; la capacità di vedere al di là della superficie del
reale; la terribile malattia, che lo porterà alla morte giovane, ne fanno
un vero profeta. E tra gli scritti proprio la Risposta ai cappellani
militari e la Lettera ai giudici sono i più profetici, sia sul piano
stilistico che dei contenuti.
Un esempio sul piano stilistico: “Ma se ci dite che il rifiuto di
difendere se stesso e i suoi secondo l’esempio e il comandamento
del Signore è
“estraneo al comandamento cristiano dell’amore” allora non
sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo
intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare
la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!”.
Un altro esempio misto.
“Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri
allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il
diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,
privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i
miei stranieri”.
Non è il “Guai a voi…” di Isaia. Ma il tono è quello. La potenza
della parola è quella.
Per il contenuto: “…la guerra difensiva non esiste più. Allora non
esiste più una “guerra giusta” né per la Chiesa né per la
Costituzione”. Sono solo tre esempi e se ne potrebbero fare decine.
I due scritti sono profetici anche per altre due caratteristiche.
Si parte infatti da un caso circoscritto, i giovani obiettori al
servizio militare finiti in carcere negli anni Sessanta, per affrontare il
vero problema che è questione di principio essenziale: la libertà di
coscienza. Si arriva a dire ai giovani “…che essi sono tutti sovrani,
per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni…”. E lo afferma un prete che ha fatto
dell’obbedienza alla Chiesa dei sacramenti, della remissione dei
peccati, una ragione di vita.
L’altra caratteristica è questo avere un interlocutore non generico,
un interlocutore che spesso detiene il potere.
Non a caso davanti a don Milani c’è sempre un uomo in carne ed
ossa, qui ed ora, a cui ciò che scrive è indirizzato. La maggior parte
degli scritti e delle opere sono, forse proprio per questo, sotto forma
di lettera.
Quell’apparente anomalia che può sembrare Esperienze
pastorali, in realtà, ne contiene almeno tre formalmente stilate:
Lettera aperta a un predicatore, Lettera dall’oltretomba, Lettera a
don Piero. Insomma la forza della parola di don Milani è proprio in
questo ragionare in concreto per arrivare ai princìpi. E la lettera è la
forma più adatta per questa operazione.
Per capire la potenza della parola milaniana che muove le
coscienze, basta fare un confronto tra la sua Risposta ai cappellani
militari e la Lettera aperta ai cappellani militari di don Bruno Borghi.
La lettera di don Borghi, un prete operaio fiorentino di grande
caratura, non smuove le coscienze, non suscita la polemica feroce.
È una fredda e asettica riflessione intellettuale. Viene pubblicata, pur
essendo stata diffusa prima, solo con gli scritti di don Milani.
Il priore sa la potenza della propria parola e fa tutto in piena
coscienza:
“Sto scrivendo - confida alla madre - una lettera ai cappellani
militari (…).
Spero di tirarmi addosso tutte le grane possibili”. E le grane non
mancano: lettere minatorie, insulti, attacchi sui giornali fascisti, la
minaccia di sospensione a divinis, e poi la denuncia e il processo. La
condanna dopo la morte.
La parola potente e dirompente di don Milani ha però un fine
ultimo ulteriore: “È per me il processo può essere solo una nuova
cattedra per fare scuola…” scrive. In buona sostanza l’obiezione di
coscienza è solo un appiglio per continuare ad essere maestro di
libertà per quelle poche decine di creature per cui aveva “perso la
testa”: i piccoli alunni della scuola di Barbiana. Ancora una lezione
mirata, che proprio per questo può diventare universale.
Va detta una parola sulla violenza di don Milani. È una violenza
verbale che nasce da una miscela esplosiva: un pensiero forte,
tagliente e sovversivo; la certezza, come credente e cattolico
ortodosso, che la verità si mostra; il gusto ironico del paradosso e
dell’iperbole, che spesso non è stato inteso. L’ingrediente più
pericoloso è l’idea che la verità è come la luce e si mostra. Chi non
la vede è quindi in malafede, è accecato dalla propria malvagità. Un
errore simile a quello dei grandi profeti.
Fortunatamente don Milani, come Gandhi e King, attenua l’errore
professandosi nonviolento. L’errore teorico è bloccato nella prassi.
D’altra parte non si può chiedere a un profeta di leggere Stuart
Mill o Karl Popper.
Carlo Galeotti
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I testi
Tre sono i testi che vengono editi in questa antologia: l’ordine del
giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato
dalla Nazione del 12 febbraio 1965 (p.11); la Risposta ai cappellani
militari di don Milani del 23 febbraio 1965 pubblicata il 6 marzo da
Rinascita (p.12); la Lettera ai giudici (18 ottobre 1965) del processo
avviato dopo una denuncia per apologia di reato, presentata da un
gruppo di ex combattenti alla procura di Firenze (p.22).
Gli scritti di don Milani sono quelli dei volantini che lo stesso
priore ha elaborato e ricontrollato. La revisione è stata fatta sulla
base dei volantini autentici. Sono state numerose le discrepanze
trovate rispetto ai testi pubblicati in passato.
L’esigenza iniziale che ha portato alla nuova edizione è stata
quella di far uscire l’opera di don Milani dai salotti buoni, dai circoli di
intellettuali cattolici e laici. Quei salotti, pregni di cultura “cittadinborghes-intellettual-studentesca”, che per don Milani divennero lo
stereotipo dell’inutilità. Stipare il pensiero sovvertitore di don Milani in
un Millelire è un esperimento pericoloso ma che andava fatto per
non imbalsamare una delle menti più vive e penetranti della cultura
italiana del dopoguerra. Si tratta di vedere se quelle “cariche di
esplosivo” ammonticchiate continueranno a scoppiettare “per
almeno 50 anni sotto il sedere” dei suoi vincitori, come profetizzava
don Milani.
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I cappellani militari e l’obiezione di coscienza Nell’anniversario
della Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri,
presso l’Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i
cappellani militari in congedo della Toscana.
Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione
don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno:
“I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello
spirito del recente congresso nazionale dell’associazione, svoltosi a
Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti
d’Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio,
ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di
tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il
sacro ideale della Patria.
Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta
“obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano
dell’amore, è espressione di viltà”.
L’assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per
tutti i caduti.
Comunicato pubblicato sulla Nazione di Firenze del 12 febbraio
1965.
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Lettera ai cappellani Militari Toscani che hanno sottoscritto il
comunicato dell‘11 febbraio 1965
Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi
della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.
Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto
domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita
militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi
e la mia scuola.
Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su
un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande
pubblicamente.
PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri
ammiriamo. E nessuno, ch’io sappia, vi aveva chiamati in causa. A
meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza
cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.
SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza
chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi.
Nel rispondermi badate che l’opinione pubblica è oggi più matura
che in altri tempi e non si contenterà né d’un vostro silenzio, né
d’una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni
sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono
argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di
ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non
giuste.
Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste
divisioni.
Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri
allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il
diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato,
privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i
miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla
Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi
eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire
che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno
nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate
sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e
vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo
sciopero e il voto.
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre
se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma
rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che
per le loro idee pagano di persona.
Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte
volte.
Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal
pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra
la Patria e valori ben più alti di lei.
Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile
dimostrare che Gesù era contrario alla violenza e che per sé non
accettò nemmeno la legittima difesa.
Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.
Articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla
libertà degli altri popoli…”.
Articolo 52 “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”.
Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il
popolo italiano in un secolo di storia.
Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di
offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati
dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E
poi dovrete spiegarci chi difese più la Patria e l’onore della Patria:
quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la
nostra Patria a tutto il mondo civile? Basta coi discorsi altisonanti e
generici. Scendete nel pratico. Diteci esattamente cosa avete
insegnato ai soldati. L’obbedienza a ogni costo? E se l’ordine era il
bombardamento dei civili, un’azione di rappresaglia su un villaggio
inerme, l’esecuzione sommaria dei partigiani, l’uso delle armi
atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l’esecuzione
d’ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni
(scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere
terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente
aggressione, l’ordine d’un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la
repressione di manifestazioni popolari?
Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni
guerra.
Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o
avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la
verità in faccia ai vostri “superiori” sfidando la prigione o la morte? se
siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a
nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro
comunicato di non avere la più elementare nozione del concetto di
obiezione di coscienza.
Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere,
come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati. Oltre a tutto la
Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo.
E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l’anno) l’esercito, è
solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto
contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora
(esperienza della storia alla mano) urgeva più che educaste i nostri
soldati all’obiezione che all’obbedienza.
L’obiezione in questi 100 anni di storia l’han conosciuta troppo
poco.
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