La rivoluzione comincia dal tuo armadio – Tutto quello che dovreste sapere sulla moda sostenibile – Luisa Ciuni & Marina Spadafora

SINTESI DEL LIBRO:
In cui si presenta il palazzo della regina Gloriana
e in cui si dà la descrizione
di alcuni dei suoi abitanti,
nonché una breve esposizione di talune attività
che hanno luogo nella città di Londra,
la notte di fine anno,
il dodicesimo del regno di Gloriana
l palazzo ha la grandezza di una cittadina di medie dimensioni,
perché nel corso dei secoli le sue dipendenze, le sue logge e le
sue ali, i suoi padiglioni, le residenze degli ospiti, gli appartamenti dei
nobili di corte, delle dame del seguito regale, di paggi, di notabili e di
sicofanti sono stati collegati da gallerie coperte, in cui a loro volta
sono stati installati soppalchi e ballatoi, con una tale profusione che
ora vi s'incontrano corridoi nei corridoi, gallerie nelle gallerie, case in
quelle che erano nate per essere solo stanze, e le stanze
appartengono a castelli, e questi sono a loro volta contenuti in
caverne artificiali, e sul tutto è stato innalzato un nuovo tetto con
tegole di platino e d'oro, d'argento e di marmo e di madreperla,
cosicché il palazzo avvampa di mille colori alla luce del sole, mentre
a quella della luna sembra tremolare, le sue pareti sembrano
ondeggiare, i tetti sembrano alzarsi e abbassarsi come le onde di un
mare di splendori da cui spuntano torrette e minareti, pinnacoli e
belvedere, che in quel mare sono gli alberi maestri e le carene delle
navi naufragate a riva.
All'interno, il palazzo è raramente fermo; c'è un andirivieni
continuo di grandi aristocratici che sfoggiano vestiti di broccato, di
seta e di velluto, pesanti catene d'argento e d'oro, stocchi filigranati,
guardinfanti d'avorio, mantelli svolazzanti e ondeggianti strascichi,
talvolta tenuti sollevati da paggetti d'entrambi i sessi, ma così piccoli
e così carichi di stoffe preziose che c'è da chiedersi come riescano
ancora a camminare.
Da più di un'orchestra giungono musiche delicate, suonate alla
perfezione, e tutti, nobili e servitori, si muovono a tempo di danza. In
taluni palazzi e in talune stanze si provano masque e commedie, si
eseguono concerti, si dipingono ritratti, si eseguono affreschi, si
tessono tappeti, si scolpiscono marmi, si recitano versi; e si svolgono
innumerevoli corteggiamenti e consumazioni e litigi, sempre del tipo
più acceso, caratteristico di un universo ristretto come quello del
palazzo.
E negli spazi dimenticati, tra una parete e l'altra, nei corridoi
segreti e chiusi, abitano i topi umani, gli inquilini dell'ombra: i
vagabondi, i servitori in disgrazia, le concubine dimenticate, le spie,
gli scudieri messi al bando, i figli della colpa, i portatori di grottesche
deformità; le puttane abbandonate, i parenti idioti, gli eremiti, i pazzi,
alcuni romantici disposti a qualsiasi sacrificio pur di essere vicini alla
fonte del potere; i prigionieri fuggiti, i nobili destituiti, ma troppo
orgogliosi per comparire nella città sottostante, i cortigiani scacciati, i
mariti che hanno abbandonato il tetto coniugale, gli amanti impauriti,
i bancarottieri, i malati e gli invidiosi di ogni sorta; tutti abitano e
sognano laggiù, soli o in comunità loro proprie, ciascuna con il suo
territorio e i suoi costumi ben distinti da quelli delle altre. Tutt'altra
vita che quella nelle stanze e nelle sale ben illuminate del palazzo
vero e proprio: una vita quasi sempre sconosciuta, che si svolge a
pochi passi dall'altra.
Sotto il palazzo si stende invece la grande città, capitale di un
impero, ricca di oro e di fama, patria di avventurieri, mercanti, poeti e
drammaturghi, di maghi, di alchimisti e di ingegneri, di scienziati, di
filosofi e di artigiani di ogni genere, di senatori e di studiosi (poiché
vanta una grande università) di teologi, di pittori, di attori, di
bucanieri, di strozzini, di briganti, di danzatori, di musicisti, di
astrologi, di architetti, di fabbri, di industriali delle grandi manifatture
fumose ai margini della capitale d'Albione, di profeti, di esuli di terre
straniere, di addestratori di animali, di giudici, di medici, di galanti e
di cicisbei, di grandi dame e nobili signori, tutti che si accalcano nelle
grandi taverne della città, nei ristoranti, nei teatri di prosa e d'opera,
nelle locande e nelle sale da concerto; nei portici e nei negozi di vini,
nelle gallerie d'esposizione, a pavoneggiarsi in abiti fantastici, a
opporsi a qualsiasi costo al conformismo, a tal punto che perfino le
battute dei suoi monelli di strada sono più brillanti della
conversazione di un signorotto di campagna.
A Londra, gli stessi discorsi dei vagabondi sono così ricchi di
metafore e di allusioni che un antico poeta avrebbe dato l'anima per
possedere la lingua di un qualsiasi apprendista londinese. Eppure è
una lingua quasi impossibile a tradursi, più misteriosa del sanscrito,
e la sua moda cambia di giorno in giorno. I moralisti denunciano
queste abitudini, la perpetua sete di novità vuote, e gridano che la
decadenza è ormai prossima, come inevitabile risultato della ricerca
di sensazioni vane, eppure la pressione sugli artisti perché creino
un'ininterrotta serie di novità, anche se porta i mediocri ad
accontentarsi di sensazioni epidermiche, porta i migliori di loro ad
arricchire le commedie con il fuoco di una lingua vitale e complessa
(poiché sono certi di essere capiti), di eventi melodrammatici e
favolosi (perché sanno di essere creduti), di disquisizioni su qualsiasi
argomento (perché sanno che il pubblico le seguirà), e questo vale
anche per i migliori musicisti, poeti, filosofi, senza dimenticare i bassi
scrittori in prosa, i quali vorrebbero la legittimazione della loro arte,
che, come tutti sanno, è bastarda.
In breve, Londra è viva a ogni livello; anche i suoi parassiti, si
potrebbe sospettare, hanno la parola sciolta, e le pulci dibattono con
le altre pulci se il numero dei cani contenuto nell'universo sia finito o
infinito, mentre i topi arzigogolano su profonde questioni come quella
se sia nato prima il mugnaio o la farina.
E se il linguaggio prende fuoco, le azioni non gli sono da meno, e
a loro volta le azioni colorano le parole. In quella città si compiono
grandi imprese in nome della regina che, con il suo palazzo, la
domina dall'alto. Partono spedizioni, si fanno importanti scoperte.
Inventori ed esploratori arricchiscono il regno: è come una coppia di
fiumi gemelli che affluisce nella città: l'uno ha nome Conoscenza, e
l'altro Oro, e il lago che formano è il tessuto stesso di Londra, che ne
è composta in proporzioni uguali.
Ci sono lotte e crimini, naturalmente: le passioni sono forti, danno
alla testa, e i crimini sono feroci e orribili, perché la posta in gioco
può essere enorme; l'avidità ha la statura di un gigante, l'ambizione
è il Credo di molti, è una droga, una malattia, una coppa di cui non si
arriva al fondo.
Eppure, a Londra non sono pochi coloro che hanno imparato le
virtù che dovrebbero accompagnarsi alla ricchezza per renderla
armoniosa, e che sono illuminati, umani, caritatevoli, generosi; che
vivono secondo le più alte tradizioni della scuola stoica; che
mostrano a tutti la loro nobiltà e che si offrono come esempio ai
compagni ricchi e poveri; che vengono derisi per la loro serietà,
odiati per la loro modestia, invidiati per la loro indipendenza. Pio e
pomposo, così alcuni definirebbero il loro stato, e questo è vero per
una parte di loro, priva di umorismo e di ironia. Ma tutti quegli
orgogliosi principi e capitani d'industria, mercanti e avventurieri, preti
e studiosi, seguono un codice morale, benché non dimentichino mai
di essere anche degli individui, e talvolta eccentrici: sarebbero
disposti a servire la nazione e l'impero (nella persona della loro
regina) a qualsiasi costo, compreso, se la necessità lo richiedesse,
quello della vita perché "Lo Stato è tutto e la regina è giusta". Tutti,
fino all'ultimo, sono disposti a porre in secondo piano il proprio
interesse, perché ritengono che quello dello stato venga per primo.
Non sempre è stato così nel regno di Albione, ma lo è adesso che
regna Gloriana, perché le persone che, con i loro sforzi, tengono
insieme l'impero, che ne fanno un'entità coerente, ne assicurano la
sicurezza, sono convinte che esista un solo fattore di stabilità: la
regina stessa.
La ruota del tempo ha girato: dall'oro all'argento, dal rame al ferro,
e adesso, con Gloriana, è tornata nuovamente all'oro.
Gloriana la Prima, Regina d'Albione, Imperatrice dell'Asia e della
Virginia, è una sovrana amata a venerata come una dea da molti
milioni di sudditi, ed è ammirata e rispettata da molti altri milioni in
tutto il globo. Per i teologi (tolti i più fanatici) è l'unica rappresentante
degli dèi sulla terra, per i politici è l'incarnazione dello Stato, per i
poeti è Giunone, per la gente del popolo è la Madre; santi e
peccatori concordano nell'amarla. Se Gloriana ride, il regno gioisce;
se piange, tutta la nazione geme con lei; se le occorre qualcosa, in
mille si fanno avanti per soddisfare ogni suo desiderio; se è in
collera, decine di persone le offrono di vendicarsi su chi l'ha offesa.
In questo modo, su Gloriana ha finito per accumularsi una
responsabilità quasi insopportabile: è costretta a esercitare la
diplomazia in ogni aspetto della sua vita, a non tradire alcuna
emozione, a non chiedere mai nulla, a trattare con equità ogni
postulante. Nel suo regno non ci sono mai stati un'esecuzione o un
arresto arbitrari; si è data la caccia ai funzionari corrotti, che sono
stati allontanati; tribunali e corti dispensano giustizia in modo uguale
per tutti, poveri e ricchi; molti che infrangono la lettera della legge
vengono lasciati in libertà se è chiara la loro innocenza: a questo
modo, la legge consuetudinaria viene di fatto abolita. Nelle città e
nelle campagne, nei villaggi e nelle fabbriche, nella capitale e nelle
colonie, l'equilibrio si mantiene grazie a questa nobile e umana
regina.
La regina Gloriana, unica figlia di re Hern VI (despota e
degenerato, traditore della nazione, abusatore della fiducia riposta in
lui, che aveva fatto cadere mille teste e che poi, vigliaccamente,
aveva alzato la mano su se stesso), dell'antico sangue di Elficleo e
di Britone, vincitori di Gogmagog, conosce l'amore dei sudditi e lo
contraccambia; eppure quell'amore è per lei un peso gravoso: un
peso che lei non osa confessare, ma che è la causa della sua
tristezza.
Non che il regno ignori il dolore della regina: se ne sussurra sia nei
palazzi dei nobili di rango sia nelle osterie del popolino, nei tribunali
di paese e nei collegi monastici; i poeti vi alludono (senza malizia) e i
nemici studiano come approfittarne a proprio vantaggio. I vecchi
pettegoli la chiamano la "condanna di Sua Maestà", e taluni
metafisici pretendono che quella della regina sia l'immagine della
condanna che pesa su tutta l'umanità (o forse, in particolare, sul
popolo d'Albione, se tendono a dar prova di provincialismo).
Molti hanno cercato di liberare la regina dalla condanna, e lei li ha
incoraggiati a farlo, perché se Sua Maestà ha una virtù, è quella di
non rinunciare mai alla speranza. Sono stati proposti rimedi
clamorosi e fantastici, ma senza successo; la regina, dicono le voci,
continua a gemere per l'insoddisfazione.
Neppure i buffoni che intrattengono i clienti delle taverne osano
scherzare su questo; neppure i più puritani e fanatici predicatori
osano trarre una morale dalla sua disgrazia. Uomini e donne sono
morti malamente (anche se la regina non ne è mai giunta a
conoscenza) per essersi beffati della disgrazia della regina.
Giorno dopo giorno, la regina Gloriana (bella e dignitosa, saggia e
potente) conduce gli affari di stato in accordo con gli elevati ideali
della cavalleria; notte dopo notte cerca la soddisfazione,
l'abbandono finale, senza mai raggiungerlo. E mattino dopo mattino
si alza e soffoca le angustie personali per dedicarsi ai suoi doveri, a
leggere, firmare, discutere, discorrere, ricevere emissari, dare
udienza, varare navi e inaugurare monumenti, posare prime pietre,
presenziare a cerimonie e mostrarsi al popolo come simbolo vivente
della sicurezza del suo regno. E alla sera fa da padrona di casa agli
ospiti, conversa con i cortigiani, gli amici e i parenti (comprese le sue
nove figlie); e poi di nuovo a dormire, a cercare, a sperimentare; e
quando, come sempre, il tutto finisce in un fallimento, geme a voce
alta, senza pensare che i corridoi segreti del suo palazzo amplificano
la sua voce e la portano in ogni angolo dell'immensa costruzione.
Così tutta la corte condivide il suo dolore e la sua insonnia:
"Ah, il desio! Questa tortura è talmente grande che riuscirei a
sopportarne con indifferenza qualsiasi altra. Se morendo potessi
provare un così alto trasporto, anche una volta sola, mi consegnerei
di buon grado a ogni orrore… No, questo è tradimento. Io sono lo
Stato. Io devo servire… Ah, non c'è neppure un solo essere, in tutto
il mio regno, che possa aiutarmi?"
Nel suo statuario letto dalle coperte di castoro ed ermellino,
abbracciato a due delle sue concubine, una per parte, veglia Lord
Montfallcon, vestito di una camicia da notte di seta; sa che quei
gemiti escono dalle labbra della sua regina, a più di trecento passi di
distanza, e ricorda come l'ha protetta da bambina, con folle
idealismo, per tutta la durata della tirannide paterna: un'epoca
euforica e terribile. Ricorda i suoi leali tentativi di trovarle un amante,
il loro fallimento, la propria disperazione.
«Oh, mia signora» mormora, in un filo di voce, perché le sue
amate concubine non lo sentano «se tu fossi solo una donna, e non
Albione stessa! Se il tuo sangue non fosse quello reale!»
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