Il labirinto degli spiriti – Carlos Ruiz Zafón

SINTESI DEL LIBRO:
Quella notte sognai di tornare nel Cimitero dei Libri Dimenticati. Avevo di
nuovo dieci anni e mi svegliavo nella mia vecchia stanza avvertendo che la
memoria del viso di mia madre mi aveva abbandonato. Nel modo in cui si
sanno le cose nei sogni, sapevo che la colpa era mia e soltanto mia perché
non meritavo di ricordarlo e perché non ero stato capace di renderle giustizia.
Dopo un po’ entrava mio padre, allarmato dalle mie urla d’angoscia. Mio
padre, che nel sogno era ancora giovane e aveva tutte le risposte del mondo,
mi abbracciava per consolarmi. Poi, quando le prime luci dipingevano una
Barcellona di vapore, uscivamo. Mio padre, per qualche motivo che non
riuscivo a comprendere, mi accompagnava soltanto fino al portone. Lì mi
lasciava la mano e mi faceva capire che quello era un viaggio che dovevo
intraprendere da solo.
Iniziavo a camminare, ma ricordo che mi pesavano i vestiti, le scarpe e
perfino la pelle. Ogni passo richiedeva più sforzo del precedente. Arrivando
alle Ramblas avvertivo che la città era rimasta sospesa in un istante infinito.
Le persone si erano fermate e apparivano congelate come figure in una
vecchia fotografia. Una colomba che si alzava in volo disegnava appena
l’abbozzo confuso di un battito d’ali. Granelli di polline aleggiavano
immobili nell’aria come luce in polvere. L’acqua della fontana di Canaletas
brillava nel vuoto e sembrava una collana di lacrime di cristallo.
Lentamente, come se cercassi di camminare sott’acqua, riuscivo a
addentrarmi nell’incantesimo di quella Barcellona ferma nel tempo fino a
raggiungere l’ingresso del Cimitero dei Libri Dimenticati. Lì mi fermavo,
esausto. Non riuscivo a capire cosa fosse quel carico invisibile che mi
trascinavo dietro e che mi impediva quasi di muovermi. Afferravo il
picchiotto e bussavo alla porta, ma nessuno veniva ad aprirmi. Continuavo a
battere con i pugni sul grande portone di legno, ma il guardiano ignorava le
mie suppliche. Esanime, alla fine cadevo in ginocchio. Soltanto allora,
contemplando il sortilegio che mi ero trascinato dietro, mi assaliva la terribile
certezza che la città e il mio destino sarebbero rimasti congelati per sempre in
quell’incantesimo e che non avrei mai potuto ricordare il viso di mia madre.
Era allora, quando stavo abbandonando ogni speranza, che lo scoprivo. Il
pezzo di metallo era nascosto nella tasca interna di quella giacca da collegiale
con le mie iniziali ricamate in blu. Una chiave. Mi chiedevo da quanto tempo
fosse lì senza che lo sapessi. Era coperta di ruggine e pesante quasi come la
mia coscienza. A stento riuscivo a sollevarla con entrambe le mani fino alla
serratura. Dovevo impegnarmi fino all’ultimo respiro per riuscire a farla
girare. Quando credevo che non ce l’avrei mai fatta, il catenaccio cedeva e il
portone scivolava lentamente verso l’interno.
Un corridoio curvo si addentrava nel vecchio palazzo, punteggiato da una
scia di candele accese che segnava il cammino. Mi immergevo nelle tenebre e
sentivo la porta che si chiudeva alle mie spalle. Riconoscevo allora quel
corridoio fiancheggiato da affreschi di angeli e creature favolose che
scrutavano dall’ombra e sembravano muoversi al mio passaggio. Percorrevo
il corridoio fino ad arrivare a un arco che si apriva su una grande volta e mi
fermavo sulla soglia. Il labirinto si stagliava di fronte a me in un miraggio
infinito. Una spirale di scalinate, tunnel, ponti e archi intrecciati in una città
eterna costruita con tutti i libri del mondo s’innalzava verso un’immensa
cupola di vetro.
Mia madre aspettava lì, ai piedi della struttura. Era distesa in un sarcofago
aperto con le mani incrociate sul petto, la carnagione pallida come il vestito
bianco che le avvolgeva il corpo. Aveva le labbra sigillate e gli occhi chiusi.
Giaceva inerte nel riposo assente delle cose morte e delle anime perse.
Avvicinavo la mano per accarezzarle il volto. La sua pelle era fredda come il
marmo. Allora apriva gli occhi e il suo sguardo incantato di ricordi si fissava
nel mio. Quando apriva le labbra scurite e parlava, il suono della sua voce era
così assordante che m’investiva come un treno merci e mi strappava dal
suolo, lanciandomi in aria e lasciandomi sospeso in una caduta infinita
mentre l’eco delle sue parole liquefaceva il mondo. Devi raccontare la verità,
Daniel.
Mi svegliai di colpo nella penombra della stanza da letto, fradicio di sudore, e
trovai il corpo di Bea steso accanto a me. Lei mi abbracciò e mi accarezzò il
viso.
«Di nuovo?» mormorò.
Annuii e respirai a fondo.
«Stavi parlando. Nel sonno.»
«Cosa dicevo?»
«Non si capiva» mentì Bea.
La guardai e mi sembrò che mi sorridesse con compassione, o forse era
solo pazienza.
«Dormi un altro po’. Manca ancora un’ora e mezzo prima che suoni la
sveglia e oggi è martedì.»
Martedì significava che toccava a me accompagnare Julián a scuola.
Chiusi gli occhi e finsi di addormentarmi. Quando li riaprii, un paio di minuti
più tardi, trovai il viso di Bea che mi osservava.
«Che c’è?» domandai.
Bea si chinò su di me e mi baciò dolcemente sulle labbra. Sapeva di
cannella.
«Nemmeno io ho sonno» insinuò.
Cominciai a spogliarla senza fretta. Stavo per tirar via le lenzuola e
gettarle a terra quando sentii dei passi leggeri sulla soglia della stanza. Bea
fermò l’avanzata della mia mano sinistra fra le sue cosce e si sollevò
appoggiandosi sui gomiti.
«Cosa succede, tesoro?»
Il piccolo Julián ci stava osservando dalla porta con un’ombra di pudore e
inquietudine.
«C’è qualcuno nella mia stanza» mormorò.
Bea sospirò e tese le braccia verso di lui. Julián si affrettò a rifugiarsi
nell’abbraccio della madre e io rinunciai a ogni speranza in peccato
concepita.
«Il Principe Scarlatto?» domandò Bea.
Julián annuì, compunto.
«Adesso papà va nella tua stanza e lo caccia a calci, così non tornerà mai
più.»
Nostro figlio mi lanciò uno sguardo disperato. A cosa serve un padre se
non a missioni eroiche di questa portata? Sorrisi e gli feci l’occhiolino.
«A calci» ripetei con l’atteggiamento più furioso che riuscii a elaborare.
Julián si consentì un abbozzo di sorriso. Saltai giù dal letto e percorsi il
corridoio fino alla sua stanza. Mi ricordava a tal punto quella che avevo avuto
alla sua età, qualche piano più in basso, che per un attimo mi chiesi se non
fossi ancora prigioniero del sogno. Mi sedetti accanto al letto e accesi la
lampada sul comodino. Julián viveva circondato dai giocattoli, alcuni
ereditati da me, ma soprattutto dai libri. Non ci misi molto a trovare quello
sospetto nascosto sotto il cuscino. Presi quel piccolo volume rilegato in nero
e lo aprii alla prima pagina.
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