Fontamara- Ignazio Silone 

SINTESI DEL LIBRO:

 «Il primo di giugno dell’anno scorso Fontamara rimase per la prima
volta senza illuminazione elettrica. Il due di giugno, il tre di giugno, il
quattro di giugno, Fontamara continuò a rimanere senza
illuminazione elettrica. Così nei giorni seguenti e nei mesi seguenti,
finché Fontamara si riabituò al regime del chiaro di luna. Per arrivare
dal chiaro di luna alla luce elettrica, Fontamara aveva messo un
centinaio di anni, attraverso l’olio di oliva e il petrolio. Per tornare
dalla luce elettrica al chiaro di luna bastò una sera.
I giovani non conoscono la storia, ma noi vecchi la conosciamo.
Tutte le novità portateci dai Piemontesi in settant’anni si riducono
insomma a due: la luce elettrica e le sigarette. La luce elettrica se la
sono ripresa. Le sigarette? Si possa soffocare chi le ha fumate una sola
volta. A noi è sempre bastata la pipa.
La luce elettrica era diventata a Fontamara anch’essa una cosa
naturale, come il chiaro di luna. Nel senso che nessuno la pagava.
Nessuno la pagava da molti mesi. E con che cosa avremmo dovuto
pagarla? Negli ultimi tempi il cursore comunale neppure era più
venuto a distribuire la solita fattura mensile col segno degli arretrati, il
solito pezzo di carta di cui noi ci servivamo per gli usi domestici.
L’ultima volta che il cursore era venuto, per poco non vi aveva
lasciato la pelle. Per poco una schioppettata non l’aveva disteso secco
all’uscita del paese. Egli era assai prudente. Veniva a Fontamara
quando gli uomini erano al lavoro e nelle case non trovava che donne e
creature. Ma la prudenza non è mai troppa. Egli era molto affabile.
Distribuiva le sue carte con una risatella cretina, pietosa.
Diceva: “Prendete, per carità, non ve l’abbiate a male, un pezzo di
carta in famiglia può sempre servire.“
Però l’affabilità non è mai troppa. Alcuni giorni dopo un carrettiere
gli fece capire, non a Fontamara (a Fontamara egli non metteva più
piede), ma giù nel capoluogo, che la schioppettata probabilmente non
era stata diretta contro di lui, contro la sua persona, contro la persona
di Innocenzo La Legge, ma piuttosto contro la tassa. Però se la
schioppettata avesse colto in segno, non avrebbe ucciso la tassa, ma
lui; perciò non venne più, e nessuno lo rimpianse. Né a lui balenò mai
l’idea di proporre al comune un’azione giudiziaria contro i
Fontamaresi.
“Se si potessero sequestrare e vendere i pidocchi”, aveva suggerito
una volta, “senza dubbio un’azione di giustizia darebbe importanti
risultati. Ma anche se fosse lecito sequestrarli, poi, chi li
ricomprerebbe?“
La luce doveva essere tagliata al primo gennaio. Poi al primo
marzo.
Poi al primo maggio. Poi si disse: “Non sarà più tolta. Sembra che
la regina sia contraria. Vedrete che non sarà più tolta“. E al primo
giugno fu tagliata.
Le donne e i bambini che erano in casa furono gli ultimi ad
accorgersene. Ma noi che tornavamo dal lavoro – quelli che erano stati
al mulino e tornavano per la strada rotabile, quelli che erano stati alla
contrada del cimitero e tornavano giù dalla montagna, quelli che erano
stati alla cava di sabbia e tornavano costeggiando il fosso, quelli che
erano stati a giornata e tornavano un po’ da tutte le parti – a mano a
mano che si faceva scuro e vedevamo le luci dei paesi vicini accendersi
e Fontamara sbiadirsi, velarsi, annebbiarsi, confondersi con le rocce,
con le fratte, con i mucchi di letame, capimmo subito di che si trattava.
(Fu e non fu una sorpresa.)
Per i ragazzi fu anzi motivo di baldoria. Da noi i ragazzi non hanno
spesso motivi di baldoria e quando càpitano, povere creature, ne
approfittano. Così quando arriva una motocicletta, quando due asini si
accoppiano, quando si incendia un camino.
Arrivati al paese trovammo in mezzo alla via il generale Baldissera
che gridava e imprecava. D’estate egli usava rattoppar scarpe fino a
tarda ora, davanti a casa sua, alla luce del lampione, e la luce gli era
mancata. La marmaglia gli aveva circondato il deschetto, gli aveva
confuso le subbie, i chiodi, i coltelli, la pece, lo spago, i ritagli di suola,
gli aveva versato sui piedi la tinozza di acqua sporca, ed egli
bestemmiava ad altissima voce i santi dei dintorni e interpellava noi
che tornavamo dal lavoro per sapere se alla sua età, miope, meritasse
di essere privato della luce del lampione, e che cosa la regina
Margherita avrebbe pensato di una simile infamia.
Difficile era immaginare che cosa la regina avrebbe pensato.
Vi erano naturalmente alcune donne che si lamentavano; donne, è
inutile fare i nomi, sedute per terra, davanti alle loro case, che
allattavano i loro figli, o li spidocchiavano, o facevano la cucina, e si
lamentavano come se fosse morto qualcuno. Si lamentavano per la
sospensione della luce, come se la miseria, al buio, fosse per diventare
più nera.
Davanti alla cantina di Marietta, attorno al tavolo messo per
strada, ci fermammo Michele Zompa ed io; e subito dopo sopravvenne
Losurdo con l’asina che aveva portato alla monta; e dopo venne anche
Ponzio Pilato con la pompa per insolfare sulla schiena; e dopo
arrivarono Ranocchia e Sciarappa che erano stati a potare; e dopo
arrivarono Barletta, Venerdì Santo, Ciro Zironda, Papasisto e altri che
erano stati alla cava di sabbia. E tutti insieme parlavamo della luce
elettrica, delle tasse nuove, delle tasse vecchie, delle tasse comunali,
delle tasse statali, ripetendo sempre la stessa cosa, perché son cose che
non mutano. E senza che noi ce ne accorgessimo, era giunto un
forestiero.
Un forestiero con la bicicletta. Era difficile dire chi potesse essere, a
quell’ora. Ci consultammo tra noi, con lo sguardo. Era veramente
strano. Quello della luce non era. Quello del comune nemmeno. Quello
della pretura nemmeno. D’aspetto era un giovanotto elegantino. Aveva
una faccia delicata, rasata, una boccuccia rosea, come un gatto. Con
una mano teneva la bicicletta per il manubrio, e la mano era piccola,
viscida, come la pancia delle lucertole, e su un dito portava un grande
anello, da monsignore. Sulle scarpe portava delle ghette bianche.
Un’apparizione incomprensibile, a quell’ora.
Noi cessammo di parlare. Era evidente che quel fringuellino era
arrivato con l’avviso di una nuova tassa. Su questo non c’era da avere
dubbi. Nessun dubbio ch’egli avesse fatto un viaggio inutile e che i suoi
fogli avrebbero subìto la stessa fine di quelli di Innocenzo La Legge. Il
punto da chiarire era un altro: su che cosa fosse ancora possibile
mettere una nuova tassa. Ognuno di noi, per proprio conto, pensava a
questo e con lo sguardo interrogava gli altri. Ma nessuno sapeva. Forse
sul chiaro di luna?
Intanto il forestiero aveva già chiesto, due o tre volte, con una voce
di capretta, che gli si indicasse “la casa della vedova dell’Eroe
Sorcanera.

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