Fino a toccare il fondo – Teodora Kostova

SINTESI DEL LIBRO:
La musica mi trapassava le viscere come un coltello arroventato
scava nel burro, sciogliendo ogni mia resistenza e affondando dentro
di me con facilità, lasciandomi aperto e scorticato. Ogni nota di
basso era come un pugno nello stomaco; ogni acuto stridio
elettronico era uno shock per i miei nervi e mi faceva tremare gli arti.
Nessuno notò che i miei movimenti erano un po’ innaturali, o se
l’avevano fatto, non gli importava. Ballai, mi scossi e rabbrividii sulla
pista affollata, e il tempo rallentò fino a quando non sembrò che si
trascinasse a fatica. I lampi di luce colorati sfioravano lentamente i
visi sudati, con attenzione, come fossero emanati dalle torce di una
squadra di soccorritori, soffermandosi sulle facce della gente, come
se cercassero di individuare persone bisognose.
Il fatto era che tutti avevano bisogno di qualcosa, lì. Di liberarsi, di
divertirsi, di una scopata nel buio, veloce e senza complicazioni. Tutti
erano in cerca di un picco di emozioni, in un modo o nell’altro. Nel
mio caso, cercavo di dimenticare; di mettere a tacere il costante
flusso di pensieri e di immagini che si rincorrevano nella mia mente,
lottando per ottenere il predominio ogni maledetto secondo.
L’hai ucciso. Cazzo, l’hai ucciso.
Gridavo contro mia madre, la bara di mio padre che incombeva su di
noi da dietro l’altare. Ci fissavano tutti, Renee cercava di trattenermi.
Non riuscivo a vedere nulla. Avevo la vista annebbiata dall’ira, dal
dolore e dalle lacrime.
Sbattei le palpebre.
Ci volle meno di un secondo, ma mi sentivo come se avessi tenuto
gli occhi chiusi per ore. Quando le mie palpebre pesanti finalmente si
sollevarono, vidi che il tempo era ritornato alla solita velocità.
Un’ondata di rumore mi investì e barcollai all’indietro. Non andai
molto lontano, al massimo mi spostai di mezzo passo, ma sbattei
contro i corpi che si muovevano a quel ritmo rapido. Mi spintonarono
avanti e indietro per un po’, finché non riuscii a ritrovare l’equilibrio.
Sorrisi, alzai le braccia sopra la testa e lasciai che la musica mi
rapisse di nuovo.
Era bello.
Era sempre bello.
Ne avevo bisogno, quel giorno più che mai.
L’hai ucciso.
Cazzo, l’hai ucciso.
Basta!
«Finn,» mi gridò qualcuno nell’orecchio, a volume troppo alto perfino
per quel club. «Finn!»
Istintivamente, strinsi le braccia attorno al corpo che in quel
momento invadeva il mio spazio personale. Lasciai che la
sensazione familiare dovuta a quella vicinanza e all’odore dell’altro
uomo mi avvolgessero come una morbida coperta in una giornata
fredda, ma rabbrividii comunque.
«Non farlo,» mi disse lui, quando gli posai le labbra sul collo, nel
punto in cui riuscivo a sentire il battito del suo cuore. Mani forti mi
afferrarono le spalle, ma non mi spinsero via. Alzai il capo e incontrai
lo sguardo di Aiden.
Immagini in movimento, momenti congelati nel tempo e tutti a colori
vividi mi esplosero nella mente, non appena guardai il mio migliore
amico in viso. Il viso giovane e sorridente di mio padre durante la
mia infanzia; la sua bara che veniva calata nella terra, mia sorella
che piangeva; mia madre che piangeva mentre io me ne stavo
seduto lì, senza capire perché piangesse per qualcuno che aveva
passato tutta la vita a odiare; Aiden che mi stringeva piano la mano
e mi osservava con aria preoccupata.
L’hai ucciso.
Correvo, Aiden mi stava alle calcagna e gridava il mio nome; la sua
bocca si strinse in una linea incolore, quando gli dissi che avevo
bisogno di dimenticare, quel giorno più che mai.
Stavo iniziando a ricordare troppo, l’effetto delle droghe che mi
avevano annebbiato la mente stava svanendo. Dovevo fermare gli
ingranaggi che giravano nella mia testa. Avevo bisogno che quelle
immagini sparissero, se non per sempre, almeno per un paio d’ore
ancora, o sarei crollato a terra su quell’affollata pista da ballo e sarei
morto.
«Mi serve un’altra dose,» urlai nell’orecchio di Aiden, poi gli diedi le
spalle prima che potesse replicare.
Non mi avrebbe fermato, lo sapevo. Probabilmente si sarebbe fatto
un’altra dose anche lui, come sempre. Sarebbe stato lì per me, con
me, sempre, ma io non volevo vedere la luce affievolirsi ancora nei
suoi begli occhi. Dovunque andassi, Aiden mi seguiva, anche se
significava uccidersi lentamente; non avevo mai capito perché lo
facesse, ma non avevo troppa voglia di rimuginarci sopra.
Sentii la sua mano stringermi il bicipite mentre mi seguiva attraverso
la folla, fino ai bagni. Quando ci chiudemmo la porta alle spalle, la
luce e il silenzio assalirono i miei sensi all’improvviso, facendomi
rabbrividire.
«Ne hai?» chiesi, l’adrenalina che mi vibrava ancora nel sangue.
Aiden annuì e tirò fuori un sacchetto dalla tasca. «Bene.»
Entrammo in uno dei cubicoli e Aiden si appoggiò alla porta chiusa.
Notai dei rumori che provenivano da alcune delle altre cabine, ma
non poteva fregarmene di meno, di quello che facevano gli altri. Il
sangue mi ronzava nelle orecchie, mi pulsava la testa, le mani mi
tremavano quando me le infilai tra i capelli e tirai. Faceva male, e mi
godetti quel dolore.
La mano di Aiden, piena di pillole, mi comparve davanti al viso.
Inghiottii a vuoto, avevo già l’acquolina in bocca al pensiero di
quell’abbandono estatico. Con un ghigno malizioso, guardai il mio
amico negli occhi e presi due delle pillole. Aiden corrugò la fronte,
ma era troppo fuso per dirmi qualcosa. Prima che potesse
racimolare un po’ di buonsenso e farmi la ramanzina, mi ficcai le
pillole in bocca e le mandai giù senza bere nulla.
Barcollai, il sollievo e il piacere immediato mi stordirono. Le immagini
che si ripetevano senza sosta nella mia mente sbiadirono, poi si
dispersero agli angoli del mio campo visivo, finché finalmente
scomparvero. Dio, era beatitudine. Pura, vera, assoluta beatitudine.
«Cazzo,» imprecò Aiden sottovoce, e sbatté piano la testa contro la
porta
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