Sette anni di felicità – Etgar Keret

SINTESI DEL LIBRO:
Come odio questi attacchi terroristici,” dice l’infermiera
magra a quella più anziana. “Vuoi una cicca?”
La più anziana prende la gomma da masticare e
annuisce. “Che ci puoi fare?” dice. “Anch’io odio le
emergenze.”
“Non sono le emergenze,” insiste quella magra. “Io non
ho problemi con gli incidenti e il resto. Sono gli attacchi
terroristici, ti dico. Quelli rovinano tutto.”
Seduto sulla panca nel reparto maternità, penso tra me:
questa infermiera non ha tutti i torti. Sono arrivato un’ora
fa, agitatissimo, con mia moglie e un tassista ossessionato
dalla pulizia che, quando a mia moglie si sono rotte le
acque, temeva che gli rovinassimo i sedili. E ora sono qui
seduto nel corridoio, un po’ depresso, in attesa che il
personale torni dal pronto soccorso. Tutti, tranne le due
infermiere, sono andati ad aiutare le persone ferite
nell’attacco. Le contrazioni di mia moglie si sono diradate.
Forse persino il bimbo sente che tutta questa faccenda di
nascere non è più così urgente. Mentre vado alla
caffetteria, mi sorpassano dei feriti su lettighe cigolanti.
Nel taxi diretto all’ospedale mia moglie urlava come una
pazza, ma queste persone sono tutte silenziose.
“Lei non è Etgar Keret?” mi chiede un tizio con una
camicia a scacchi. “Lo scrittore?” Annuisco di malavoglia.
“Allora, sa qualcosa?” dice, tirando fuori dalla borsa un
minuscolo registratore a nastro. “Dov’era quando è
successo?” chiede. Poi, vedendomi esitare per un secondo,
aggiunge, per mostrarmi la sua comprensione: “Faccia con
comodo. Non voglio metterla sotto pressione. Lei ha subito
un trauma”.
“Non sono stato coinvolto nell’attacco,” spiego. “Oggi
sono qui per caso. Mia moglie sta per partorire.”
“Oh,” dice lui, senza cercare di nascondere il disappunto,
e preme il pulsante dello stop. “Mazel tov.” Poi si siede
accanto a me e si accende una sigaretta.
“Forse dovrebbe cercare di parlare con qualcun altro,”
suggerisco, tentando di togliermi dal viso il fumo della
Lucky Strike. “Un minuto fa ho visto che portavano due
persone in neurologia.”
“Russi,” dice lui con un sospiro, “quelli non sanno una
parola di ebraico. In neurologia, poi, non ti fanno entrare
comunque. È il settimo anno che faccio quest’ospedale e
ormai conosco tutti.” Restiamo lì seduti per un minuto
senza parlare. Ha una decina d’anni meno di me, ma è già
abbastanza calvo. Quando si accorge che lo sto guardando,
sorride e dice: “Peccato che lei non fosse là. La reazione di
uno scrittore sarebbe andata bene per il mio articolo. Uno
diverso, che guarda lontano. Dopo ogni attacco, ci sono
sempre le stesse reazioni: ‘Improvvisamente, ho sentito un
boato’; ‘Non ho idea di cosa sia successo’; ‘Era tutto
coperto di sangue’. Alla fine non se ne può più”.
“Non è colpa loro,” dico io. “È solo che gli attacchi sono
sempre gli stessi. Cosa puoi dire di originale di
un’esplosione e di queste morti insensate?”
“Va’ a sapere,” dice lui facendo spallucce. “Lo scrittore è
lei.”
Alcune persone in giacca bianca cominciano a tornare dal
pronto soccorso al reparto maternità. “Lei è di Tel Aviv,” mi
dice il reporter, “perché allora ha fatto tanta strada solo
per far partorire sua moglie in questo postaccio?”
“Volevamo un parto naturale; questo reparto...”
“Naturale?” mi interrompe, ridacchiando. “Cosa c’è di
naturale in un nano che salta fuori dalla vagina di sua
moglie con un cavo penzolante dall’ombelico?” Non cerco
nemmeno di rispondere. “Io a mia moglie ho detto così,”
continua lui: “‘Se un giorno tu dovessi partorire, solo taglio
cesareo, come in America. Non voglio che un bambino ti
sformi e t’imbruttisca’. Oggi, è solo nei paesi primitivi come
questo che le donne partoriscono come animali. Yallah,
vado a lavorare.” Mentre comincia ad alzarsi, ci prova
ancora una volta. “È sicuro di non avere proprio niente da
dire sull’attacco?” chiede. “Ha cambiato qualcosa nella sua
vita? Come il nome che voleva dare al bambino, o roba del
genere, non so.” Lo guardo con un sorriso contrito. “Non
importa,” dice, strizzandomi l’occhio. “Spero che vada tutto
liscio, amico.”
Sei ore dopo, un nano con un cavo penzolante
dall’ombelico salta fuori dalla vagina di mia moglie e si
mette subito a piangere. Cerco di calmarlo, di convincerlo
che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Che quando sarà
grande qui in Medio Oriente tutto si sarà aggiustato: ci
sarà la pace, non ci saranno più attacchi terroristici, e
anche se ce ne fosse uno ogni tanto, da qualche parte ci
sarà sempre un uomo diverso, un uomo che guarda lontano
e lo descriverà perfettamente. Lui si calma per un minuto e
poi considera la mossa seguente. Dovrebbe essere ingenuo
– visto che è un neonato – invece non la beve neanche lui,
dopo un attimo di esitazione e un piccolo singhiozzo,
riprende a frignare.
Bambinone
Quando ero piccolo, i miei genitori mi portarono in
Europa. Il clou del viaggio non fu il Big Ben o la Torre
Eiffel, ma il volo da Israele a Londra: specificamente, il
pasto. Sul vassoio c’era una minuscola lattina di Coca-Cola
e, accanto a lei, una scatola di cornflakes non molto più
grande di un pacchetto di sigarette.
La mia sorpresa per i pacchetti in miniatura sfociò in
genuina eccitazione quando li aprii, scoprendo che la Coca
aveva lo stesso gusto di quella nelle lattine della misura
standard e che anche i cornflakes erano veri. In realtà, è
difficile spiegare da dove venisse quell’eccitazione. Le cose
di cui stiamo parlando erano solo una bibita analcolica e
dei cereali per la colazione in pacchetti molto più piccoli
dei soliti, ma a sette anni io ebbi la certezza di stare
assistendo a un miracolo.
E oggi, trent’anni dopo, seduto nel mio soggiorno a Tel
Aviv e guardando il mio rampollo di due settimane, provo
esattamente la stessa sensazione: ecco un uomo che non
pesa più di quattro chili e mezzo, ma dentro è arrabbiato,
annoiato, spaventato e sereno, proprio come tutti gli altri
uomini di questo pianeta. Fategli indossare un abito intero,
mettetegli un Rolex al polso e una minuscola valigia in
mano, mandatelo in giro per il mondo, e lui negozierà,
lotterà e stringerà accordi senza batter ciglio. Non parla,
questo è vero. E s’insudicia come se non ci fosse un
domani. Sono il primo ad ammettere che ha ancora
qualcosa da imparare prima di poter essere lanciato nello
spazio o autorizzato a pilotare un F-16. Ma in linea di
massima è una persona completa chiusa in un pacco di 48
centimetri, e non soltanto una persona qualsiasi, ma una
molto estrema, un eccentrico, un personaggio. Di quelli che
rispetti, ma forse non puoi capire fino in fondo. Perché,
come tutte le personalità complesse, a prescindere dalla
statura o dal peso, ha molte sfaccettature.
Mio figlio, l’illuminato: Come uno che ha letto molto sul
buddhismo e ascoltato due o tre conferenze tenute da guru
e persino, una volta, avuto la diarrea in India, devo dire che
il mio figlioletto è la prima persona illuminata che io abbia
mai incontrato. Vive davvero nel presente, lui: non cova
risentimenti, non teme il futuro. È assolutamente privo di
egoismo. Non cerca mai di difendere il proprio onore o di
prendersi il merito di qualcosa. I suoi nonni, tra parentesi,
gli hanno già intestato un libretto di risparmio, e ogni volta
che lo fanno dondolare nella culla il nonno gli parla
dell’eccellente tasso d’interesse che è riuscito a fargli avere
e di quanti soldi, con un tasso medio d’inflazione previsto a
una sola cifra, riceverà dalla banca tra ventun anni, quando
il conto sarà esigibile. Il piccino non risponde. Ma poi il
nonno calcola le percentuali contro il tasso d’interesse
primario, e io noto che sulla fronte di mio figlio appare
qualche ruga: le prime crepe nel muro del suo nirvana.
Mio figlio, il drogato: Vorrei scusarmi con tutti i tossici
attivi o ravveduti che leggono queste parole, ma a parte il
dovuto rispetto per loro e le loro sofferenze, non esiste
dipendenza che possa stare alla pari di quella di mio figlio.
Come ogni vero tossicodipendente, lui non ha le stesse
opzioni che hanno gli altri quando si tratta di passare il
tempo libero: la scelta di un buon libro, una passeggiatina
serale o gli spareggi della National Basketball Association.
Per lui, esistono solo due possibilità: un seno o l’inferno.
“Presto scoprirai il mondo: le ragazze, l’alcol, il gioco
d’azzardo illegale online,” dico io, cercando di placarlo. Ma
finché questo non accadrà, sappiamo tutt’e due che
esisterà soltanto il seno. Per sua, e nostra, fortuna, ha una
madre che ne ha due. Nel peggiore dei casi, se uno dovesse
andare in avaria, ce ne sarebbe sempre un altro di
ricambio.
Mio figlio, lo psicopatico: Certe volte, quando mi sveglio
durante la notte e vedo la sua figurina tremare nel letto
accanto a me come un giocattolo che sta esaurendo la
carica, mandando strani rumori gutturali, non posso fare a
meno di paragonarlo nella mia immaginazione a Chucky nel
film horror La bambola assassina. Hanno la stessa altezza,
lo stesso temperamento, e non c’è nulla di sacro per
nessuno dei due. Questa è la cosa davvero inquietante del
mio bambino di due settimane: non ha un briciolo di
moralità, non un’oncia. Razzismo, disuguaglianza,
discriminazione, insensibilità: non potrebbero importargli
meno. Non ha interessi che vadano oltre i suoi impulsi e i
suoi desideri immediati. Per lui, gli altri possono andare
all’inferno o unirsi a Greenpeace. Oggi, tutto quello che
vuole è un po’ di buon latte o di sollievo dall’irritazione che
gli danno i pannolini e, se per avere queste cose bisogna
distruggere il mondo, non dovete far altro che mostrargli il
bottone. Lo premerà senza pensarci due volte.
Mio figlio, l’ebreo che odia se stesso...
“Non credi che basti?” dice mia moglie, intromettendosi.
“Magari, invece d’inventare isteriche accuse contro il tuo
adorabile piccino, non potresti fare qualcosa di utile e
cambiarlo?”
“Okay,” le dico. “Okay. Avevo quasi finito.”
Botta e risposta
Ho una vera ammirazione per i televenditori rispettosi
che ascoltano e cercano di capire il tuo stato d’animo senza
costringerti immediatamente a dialogare con loro quando
chiamano. Ecco perché, quando Devora di YES, la stazione
televisiva satellitare, chiama e chiede se per me è un buon
momento per parlare, la prima cosa che faccio è
ringraziarla per la considerazione. Poi dico educatamente
di no, che non lo è.
“Il fatto è che appena un minuto fa sono caduto in una
buca e mi sono fatto male alla fronte e a un piede, così non
è proprio il momento ideale,” spiego.
“Capisco,” dice Devora. “Allora, quando crede che sarà
un momento buono per parlare? Tra un’ora?”
“Non so,” dico. “Quando sono caduto devo essermi rotto
la caviglia, e la buca è piuttosto profonda e non credo che
potrò uscirne senza aiuto. Così, dipende dalla rapidità con
cui arriveranno i soccorsi, e se dovranno ingessarmi il
piede o no.”
“Allora, dovrei forse telefonare domani?” propone lei,
serenamente.
“Sì,” gemo. “Domani andrà benone.”
“Cos’è tutta questa manfrina della buca?” mi rimprovera
mia moglie, seduta in un taxi accanto a me, dopo aver
ascoltato la mia tattica evasiva. È la prima volta che
usciamo lasciando nostro figlio Lev con mia madre, perciò è
un po’ tesa. “Perché non riesci a dire solo ‘Grazie, ma non
m’interessa né comprare, né affittare o prendere in prestito
niente di quello che vende, qualunque cosa sia, dunque la
prego di non chiamarmi più, non in questa vita e, se
possibile, nemmeno nella prossima?’. Poi fai una piccola
pausa e dici: ‘Buona giornata’. E riattacchi, come tutti gli
altri.”
Non credo che tutti gli altri siano fermi e scortesi come
mia moglie con Devora e la sua razza, ma devo ammettere
che non ha tutti i torti. In Medio Oriente la popolazione
sente la propria mortalità più che in altri luoghi del
pianeta, il che spinge la maggior parte della gente a
sviluppare tendenze aggressive verso gli sconosciuti che
cercano di farle perdere il poco tempo che le resta sulla
Terra. E anche se difendo il mio tempo altrettanto
gelosamente, io ho un vero problema a dire di no agli
sconosciuti che mi telefonano. Non ho problemi a disfarmi
dei venditori al mercato o a dire di no a uno che conosco
che mi offre qualcosa per telefono. Ma la terribile
combinazione di una richiesta telefonica più uno
sconosciuto mi paralizza, e in meno di un secondo sono già
lì che immagino il volto segnato della persona all’altro capo
del filo, che ha avuto una vita piena di sofferenze e di
umiliazioni. La vedo ritta sul davanzale della finestra del
suo ufficio al quarantaduesimo piano che mi parla con voce
calma attraverso un cellulare, ma che ha già preso la sua
decisione: “Un altro idiota che mi dice di no e salto!”. E
quando tutto si riduce a decidere tra la vita di una persona
e un abbonamento al canale “Sculture fatte con i palloncini:
il più grande divertimento per tutta la famiglia”, per soli
9,99 shekel al mese, io scelgo la vita, o almeno lo facevo
finché mia moglie e il mio consulente finanziario mi hanno
invitato educatamente a smettere
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